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Mobbing

di Luisa Pelizza

Il fenomeno del Mobbing è definito in letteratura come una sorta di terrorismo psicologico praticato nell’ambito del rapporto di lavoro. Il fenomeno riguarda i rapporti interpersonali all’interno dei luoghi di lavoro, in cui una o più persone vengono rese vittime di violenze e molestie psicologiche, con lo scopo di emarginare e/o estromettere il lavoratore dall’ambiente. Le ripercussioni, in chi ne è oggetto, possono essere pesanti e consistono in un danno alla salute psichica, all’immagine sociale e lavorativa.

 Il termine Mobbing deriva dall’inglese “to mob” che significa attaccare con violenza, assalire, malmenare, aggredire.

E’ stato usato per la prima volta negli anni settanta dall’etologo Konrad Lorenz che nei suoi studi sul comportamento animale aveva notato un particolare comportamento in cui alcuni animali della stessa specie si coalizzavano contro un membro del gruppo, lo attaccavano e lo escludevano dalla comunità, portandolo talvolta anche alla morte.

Negli anni ottanta il termine venne ripreso dallo psicologo del lavoro Heinz Leymann il quale lo applicò ad un nuovo disturbo che aveva osservato in alcuni operai ed impiegati svedesi sottoposti ad una serie di intensi traumi psicologici sul luogo di lavoro.

Da allora in poi per Mobbing s'intendono tutti quei comportamenti che si verificano sul posto di lavoro attraverso atti, parole, gesti, scritti vessatori, persecuzioni intenzionali e comunque lesivi dei valori della personalità umana e professionale. Tutto ciò che arreca offesa alla dignità e integrità psico-fisica di una persona fino a metterne in pericolo l'impiego, o a degradare in generale il clima aziendale.
 
 
Il modello di Harald Ege
 
In Italia il primo ricercatore ad interessarsi del Mobbing è stato Harald Ege intorno agli anni '90 che lo definì: “una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti da parte dei colleghi e superiori”.
La vittima scivola progressivamente verso una condizione di estremo disagio e terrore psicologico che con il passare del tempo danneggia il suo equilibrio psico-fisico.
Nel suo studio Ege ha modificato ampliandolo, il modello dello svedese Leymann proponendo una evoluzione del fenomeno in sei fasi, legate logicamente tra loro, che hanno origine da una pre-fase o condizione zero, per arrivare al Mobbing vero e proprio.
 

La fase di condizione zero può risentire di fattori intrinseci ed estrinseci presenti nel mondo lavorativo. I fattori estrinseci sono rappresentati da fattori personali quali gelosie, ambizioni, antipatie, mentre i fattori intrinseci sono situazioni legate al mercato del lavoro, come la precarietà lavorativa, il continuo ringiovanimento degli organici e così via.

Le fasi proposte da Ege sono:

Pre-fase: condizione zero. Spesso la caratteristica del mondo del lavoro soprattutto italiano è rappresentata, secondo Ege, da un elevato grado di conflittualità tra i lavoratori, che viene percepita come regola, a cui solo poche aziende si sottraggono. Si tratta per lo più di banali diverbi d´opinione, discussioni, piccole accuse e ripicche, manifestazioni del classico ed universalmente noto tentativo generalizzato di emergere rispetto agli altri. Questo fatto è accettato da tutti proprio perché viene considerato parte delle relazioni lavorative, non viene vissuto come pericoloso, ma può costituire il punto di partenza del problema Mobbing, in quanto questa situazione può divenire terreno fertile per il suo sviluppo. Si tratta spesso di conflitti generalizzati che vede tutti contro tutti e quindi non esiste una vittima definita. Manca ancora la volontà di distruggere, ma c'è solo la voglia di rivalersi, di primeggiare sugli altri.
 
Fase I: conflitto mirato. E' la prima fase del Mobbing in cui si individua una vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale. Il conflitto fisiologico di base, che caratterizza le relazioni, prende una svolta, si incanala in una determinata direzione. L'obiettivo non è più solo quello di emergere, ma quello di distruggere l'avversario, di "fargli le scarpe". Il conflitto/contrasto non è più latente, non è solo limitato al lavoro, ma interferisce anche nella sfera privata dell'individuo.
 
Fase II: inizio del Mobbing. Gli attacchi da parte di una o più persone non causano ancora i sintomi o malattie di tipo psico-somatico, ma senso di disagio e fastidio. La vittima percepisce un senso di inasprimento delle relazioni con i colleghi ed è quindi portata ad interrogarsi su tale cambiamento.
 
Fase III: i primi sintomi psico-somatici. Questa fase costituisce un vero e proprio momento del processo che si inserisce chiaramente tra l'inizio del Mobbing ed il suo manifestarsi in pubblico. La vittima comincia a manifestare i primi problemi di salute accusando in genere un senso di insicurezza, l'insorgere di insonnia, problemi digestivi e questa situazione può protrarsi nel tempo innescando un processo di logoramento.

Fase IV: errori ed abusi dell'amministrazione. E' la fase in cui il Mobbing diventa pubblico e viene favorito da errori di valutazione da parte dell'ufficio del personale. La sintomatologia e il logoramento descritto nella fase precedente porta la persona ad assentarsi dal lavoro, facendo ripetute assenze per malattia, che accentuano l’irritazione dei colleghi che spesso devono occuparsi di mansioni e attività in sostituzione del collega assente. Questo di solito peggiora la situazione in quanto aumenta l’aggressività, l’ironia, la critica nei confronti dell’interessato, che per difendersi tende ad assentarsi dal lavoro con relativi richiami dell’amministrazione.

 Fase V: serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima. La persona a questo punto entra in una situazione di vera disperazione. Si sente in un vicolo cieco, con il manifestarsi di forme depressive più o meno gravi che lo portano a curarsi con psicofarmaci che risultano però essere cure palliative perché il problema sul lavoro resta, anzi si aggrava. Spesso la vittima si convince di essere stata la causa di tutto e di vivere in un mondo pieno di ingiustizie, contro cui nessuno può nulla, precipitando ancor più nella depressione. Si convince più che mai che tutto il mondo è contro di lui, non solo i colleghi, ma anche l'azienda stessa, che lo richiama, lo rimprovera, gli nega permessi, ferie e aspettative.

Fase VI: esclusione dal mondo del lavoro. Ultimo esito del Mobbing è l'uscita dal posto di lavoro, attraverso dimissioni volontarie, licenziamenti, ricorso al prepensionamento o altre forme ben più gravi ed estreme, quali il suicidio (studi recenti svolti sia in Svezia che in Germania stimano che il 10-20% dei suicidi in un anno siano imputabili a questo fenomeno). La vittima sarà portata inizialmente a scaricare tutti i suoi disagi e le sue sofferenze sulla famiglia che inizialmente sarà comprensiva, ma poi anch'essa tenderà nei casi estremi ad isolare l'individuo realizzando quello che è stato definito "doppio Mobbing".

 

Gli effetti sulla salute

Il Mobbing, come stiamo evidenziando, è causa di importanti effetti sulla salute della persona presa di mira. I lavoratori sottoposti a violenza psicologica presentano un alto rischio di sviluppare disturbi d’ansia, disturbi dell’umore ed una serie di correlati psicosomatici. In particolare, i disturbi si presentano a livello emozionale, psicosomatico e cognitivo-comportamentale.

A livello emozionale sono presenti aspetti che vanno da un marcato isolamento e sospettosità a irritabilità e ostilità; da aspetti depressivi a veri e propri attacchi di panico.

A livello psicosomatico possono presentarsi una serie di alterazioni che colpiscono i classici organi “bersaglio” come stomaco, intestino, cute e apparato muscolo-scheletrico. Si possono sviluppare disturbi della sfera cognitiva quali mancanza di attenzione, scarsa memoria, etc.
A livello comportamentale è possibile notare l’insorgere di condotte a rischio quali un uso eccessivo di alcol e fumo e condotte alimentari scorrette che portano nella maggioranza dei casi ad un aumento ponderale.
Il  Mobbing, in quanto fenomeno di gruppo, necessita della presenza di attori diversi che danno vita a quella che possiamo chiamare una “rappresentazione tragica” quali: il mobber”, il “mobbizzato e il resto del gruppo che spesso “sta a guardare”.
Con il termine mobber viene indicato colui che mette in atto una serie di comportamenti aggressivi che si ripetono per un lungo periodo di tempo, volti a determinare una condizione di debolezza in una persona, con lo scopo di emarginarla dall’ambiente.
Il mobber può essere un superiore, un collega o un gruppo di colleghi, che utilizzano il loro potere distruttivo per eliminare una persona divenuta in qualche modo “scomoda”, inducendo, nei casi più gravi, la vittima alle dimissioni o provocandone un immotivato licenziamento.

La vittima di queste strategie comportamentali, volte appunto alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale, viene definito mobbizzato.

Di fronte a questi attacchi, ripetuti con una certa frequenza, la “vittima” prova un senso di isolamento, si sente non valorizzata né utilizzata per le sue reali capacità, arrivando a percepire un rifiuto, effettivo o virtuale, dal contesto lavorativo. Il mobbizzato, spesso inconsapevolmente, entra in un circolo relazionale vizioso, bersaglio di una sottile e diabolica aggressione da parte di un carnefice.
Gli attacchi però non sempre sono evidenti e la vittima non è subito in grado di identificare chiaramente quello che gli sta succedendo: cattiverie e pettegolezzi sono ritenuti regole del gioco e spesso sdrammatizzate da parenti e amici a cui vengono raccontati. Così l'individuo inizia a provare un senso di inadeguatezza e di colpa per non riuscire ad essere migliore. Il mobbizzato finisce spesso per attribuire a se stesso la responsabilità delle sue difficoltà di adattamento all'ambiente lavorativo.
Alla vittima non si lascia spazio per costruire e gestire i normali rapporti interpersonali e professionali, si fa di tutto per farla sentire una persona incompetente. In realtà, nella maggior parte dei casi la vittima è una persona brillante, creativa e capace.
 

Dinamiche relazionali

Numerosi studiosi si sono dedicati all’approfondimento del Mobbing analizzandolo sia da un punto di vista relazionale che emotivo. In particolare, la psicoanalista francese Marie France Hirigoyen, sempre negli anni novanta, parla del mobber in termini di “narcisista perverso”, ovvero, di una personalità disturbata, senza sintomi evidenti, che trova il proprio equilibrio sfogando il suo malessere su un'altra persona, senza essere ovviamente consapevole di ciò e imputando tutto il negativo alla vittima designata. Dobbiamo alla Hirigoyen l’introduzione del termine “molestie morali” come sinonimo di Mobbing.
Secondo la psicoanalista il narcisista perverso è una persona priva di empatia e che considera gli altri come  oggetti utili ai suoi bisogni di potere e autorità. Sono individui che si pongono come referenti, possono essere moralistici e dichiararsi “salvatori del mondo”.
Questo tipo di persona individua facilmente come vittima un lavoratore che spesso si dimostra interessato e appassionato a ciò che fa, magari un individuo realizzato a livello familiare e sociale che suscita invidia nel mobber. La strategia consiste inizialmente nel “sedurre” la vittima portandola a sè e successivamente iniziare a denigrarla, coglierla in fallo, godendo della sofferenza arrecata. Secondo la teoria della  Hirigoyen, si tratta di una proiezione dei propri vissuti negativi sull’altro al fine di esercitare un controllo oggettivo che deriva però da un malessere interno alla persona. Evidenziare le debolezze dell’altro è un modo per non vedere le proprie, difendendosi dall’angoscia che una tale presa di consapevolezza arrecherebbe a queste persone.
Un’ulteriore lettura che si può applicare al fenomeno del Mobbing è data dalla definizione di “Triangolo drammatico”, proposta nell’ambito della psicologia transazionale da Stephen Karpman.
Karpman ha elaborato negli anni sessanta questo strumento per analizzare quelli che in Analisi Transazionale vengono definiti giochi psicologici: una serie di scambi comunicativi legati più al proprio vissuto che al contesto oggettivo, effettuati da due persone in modo inconsapevole e che conducono, con modalità reciprocamente ripetitive, a vivere emozioni spiacevoli che vanno a confermare le proprie convinzioni esistenziali su di sé, sugli altri e sul mondo.
 Egli afferma che ogniqualvolta noi effettuiamo un gioco psicologico entriamo in uno dei seguenti ruoli: salvatore, persecutore, vittima.
 
  ▪ Salvatore: si entra in questo ruolo quando ci si prodiga nell’aiutare gli altri, spesso sostituendosi ad essi, quindi svalutandone le capacità di agire, pensare e gestirsi in modo autonomo (confermandone così il senso d’impotenza e d’inadeguatezza). Ci si attribuisce valore nella misura in cui siamo utili agli altri. Il Salvatore ha bisogno di Vittime intorno a sé per continuare il gioco.
 
 ▪ Persecutore: realizza il suo ruolo attaccando gli altri, criticandoli, sminuendoli, giudicandoli, condannandoli, svalutandoli. Il Persecutore  considera gli altri inferiori a lui e ha bisogno di dimostrarlo attraverso una modalità relazionale in cui “spinge” gli altri nel ruolo di Vittima. Secondo l’Analisi Transazionale, il Persecutore agisce così perché ha una percezione di sé, più o meno consapevole, di fragilità e debolezza che non può accettare e quindi agisce proiettandola fuori di sé, cioè sugli altri. In altre parole ha paura, nelle interazioni relazionali, di essere dominato (e quindi Vittima) per cui assume il ruolo del dominatore.
 
  ▪ Vittima: è il ruolo giocato da chi si sente inferiore agli altri, e di conseguenza svaluta la propria capacità di pensare e di agire. Partendo da questa posizione possiamo dire che va alla ricerca inconsapevolmente di un Persecutore o di un Salvatore che assecondi e confermi la sua posizione esistenziale.
 
Nel Mobbing, per come viene inteso comunemente, possiamo facilmente riconoscere il mobber come il Persecutore e il mobbizzato come la Vittima, difficilmente troviamo un posto in questa dinamica per il Salvatore. Se però consideriamo, il Mobbing da un punto di vista della psicologia transazionale, vediamo che in quanto fenomeno relazionale che coinvolge due o più persone, è leggibile come un gioco psicologico. Vediamo spesso, anche in sintonia con quanto affermato dalla Hirigoyen, che l’approccio del Persecutore alla sua Vittima passa attraverso modalità seduttive tipica del “narcisista perverso” che individuata la persona fragile e debole o semplicemente disponibile, le si avvicina mostrando in una fase iniziale attenzione e aiuto (il Salvatore), per poi coinvolgerla in una relazione che si fa via via più svalutante, critica, persecutoria. Usando una metafora diciamo che il ragno tesse la tela invitando la sua preda ad accomodarsi prima di iniziare a divorarla.
 

Il fenomeno del doppio Mobbing

Interessante è il cosiddetto fenomeno del “doppio Mobbing”, di cui abbiamo accennato in precedenza, ovvero, l'energia distruttiva di cui la vittima è caricata e che può trovare in famiglia la possibilità di scaricarsi, può giungere ad un livello tale da comportare la saturazione delle disponibilità familiari.
La famiglia, inizialmente protettrice e sostenitrice, improvvisamente cambia atteggiamento, cessando di sostenere la vittima e cominciando invece a proteggere se stessa dalla forza distruttiva del mobbizzato, che diventa in questo caso il Persecutore in ambito familiare. Ciò significa che la famiglia si richiude in se stessa, per istinto di sopravvivenza e si mette sulla difensiva. La vittima, infatti, è diventata una minaccia per l'integrità e la salute del nucleo familiare, che ora pensa a proteggersi prima, ed a contrattaccare poi. Si tratta naturalmente di un processo inconscio: nessun componente è completamente consapevole di aver cessato di aiutare il proprio caro.
 E' in questi casi che si parla di doppio Mobbing: il mobbizzato perde la valvola di sfogo rappresentata dalla famiglia e quindi si sente in pratica accerchiato. Sono questi infatti i momenti di maggiore pericolosità per l’individuo, quando cioè si vive veramente abbandonato da tutti.
 

Come uscirne

Alla luce di quanto detto, è chiaro che vivere una condizione di disagio in ambiente lavorativo può avere conseguenze molto disturbanti e in alcuni casi patologiche per l’individuo.

I lavoratori che subiscono Mobbing necessitano quasi sempre di un intervento psicologico di supporto, che sia una psicoterapia individuale o di gruppo.

In base all’esperienza clinica si è notato che, in particolare, una terapia di gruppo riporta risultati molto buoni in termini di autostima, tono dell’umore e spinta al cambiamento. Infatti, confrontarsi con persone che condividono le stesse problematiche aiuta la presa di coscienza della persona, che si rivede e rispecchia negli altri e rappresenta una sorta di esperienza emotiva correttiva oltre che ad essere un aiuto per uscire dall’isolamento in cui inevitabilmente finiscono i mobbizzati.
All’interno del gruppo gli individui trovano comprensione e sostegno proprio perché si relazionano con persone che hanno vissuto gli stessi disagi. Confrontarsi in modo autentico, porta la persona a non sentirsi “sbagliata” e “vittima” ma la rende consapevole di trovarsi all’interno di giochi in cui anche lei fa la sua parte: sta al gioco.
Questi movimenti, portati all’interno del gruppo di terapia, trovano generalmente molto sostegno sia in termini motivazionali che affettivi e offrono la spinta giusta per maturare decisioni e comportamenti volti ad uscire dal ruolo designato.
 

 Pubblicato il 10.01.2012