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Esseri umani ... o topolini?

di Doriano Dal Cengio

Giorni fa, dovendo preparare degli incontri per una scuola superiore sul tema delle dipendenze, sono andato a rivedermi appunti, materiali, power point preparati nel corso degli anni, ritrovandomi tra le mani uno scritto che avevo a suo tempo preparato per spiegare il fenomeno delle dipendenze a ragazzi delle scuole medie. Il tono è volutamente discorsivo in modo da risultare semplice da un lato, ma preciso e pertinente dall’altro. Credo poi di aver lasciato lo scritto alle insegnanti coinvolte nel progetto in modo che potessero riprendere l’argomento in classe se lo ritenevano necessario. Con lo stesso spirito lo ripropongo ora in questo magazine perché penso possa essere una riflessione utile e stimolante anche per insegnanti, educatori o psicologici che si trovano ad affrontare questo tema nelle scuole.

 

Esseri umani …o topolini?

Appunti per una riflessione sulle dipendenze

 

La dipendenza è un fenomeno complesso che interessa tutta la nostra vita, a volte come condizione necessaria, a volte come situazione limitante. Quando siamo piccoli si sa, abbiamo bisogno della mamma per mangiare, per essere cambiati e puliti, poi per muovere i primi passi abbiamo bisogno dei genitori che ci sostengano e ci aiutino. Anche quando impariamo ad andare in bicicletta abbiamo bisogno che qualcuno ci regga mentre cerchiamo con fatica di trovare un equilibrio che permetta alla bicicletta di stare in piedi e andare avanti. Abbiamo bisogno. Ecco cos’è la dipendenza: aver bisogno di qualcosa o qualcuno per fare delle cose, per andare avanti, per stare bene. Ma poi cresciamo e impariamo a mangiare da soli, a pulirci da soli, a vestirci e a camminare da soli e … anche ad andare in bicicletta da soli. Siamo cresciuti. Abbiamo imparato delle cose. Abbiamo fatto un passo avanti appropriandoci di un’autonomia che prima non avevamo e questo ci fa sentire più liberi. Perché se sappiamo camminare, se sappiamo andare in bicicletta, il mondo poi è nostro, possiamo andare dove vogliamo.

La strada dell’autonomia passa attraverso la dipendenza. Questa è la verità. Dobbiamo accettare di dipendere per diventare un giorno autonomi. Anche a scuola, per fare un altro esempio, dipendiamo dai nostri insegnanti. Loro sanno noi no. Se vogliamo imparare abbiamo bisogno di loro, che ci guidano, ci correggano, ci indirizzano come fanno o hanno fatto i nostri genitori. Dipendiamo anche da loro.

E gli amici? Quante volte siamo stati male perché lei o lui o loro non ci hanno salutato, o invece di uscire con noi hanno preferito uscire con altri? Abbiamo bisogno di amici. Gli amici ci fanno sentire bene, sentiamo che di loro ci possiamo fidare, con loro possiamo giocare, scherzare, con loro possiamo ridere. Anche di loro abbiamo bisogno, anche da loro dipendiamo.

Ecco che il discorso sulle dipendenze comincia a farsi più chiaro. Tendiamo a dipendere da cose o persone che ci sono utili o che ci fanno stare bene. Ci leghiamo a cose o persone che hanno per noi un significato positivo. In effetti le cose che ci fanno stare bene ci attraggono e le cose che ci fanno stare male ci allontanano. Se una persona ci piace, ci fa piacere rivederla, anzi abbiamo voglia di rivederla perché magari vorremmo riprovare con lei le stesse emozioni che abbiamo vissuto in precedenza. Se invece una persona non ci piace e non ci va proprio giù, probabilmente facciamo il possibile per evitarla, perché il ricordo spiacevole legato a quella persona è così vivo in noi che non ci va di riviverlo.

Ma lo stesso discorso possiamo farlo, ad esempio, per il cibo. Se un giorno, magari su consiglio di un amico, abbiamo assaggiato un gelato che ci è piaciuto proprio tanto, state pur certi che il prossimo gelato che andremo a prenderci avrà proprio quel gusto. E lo stesso dicasi per i cibi che non ci piacciono, probabilmente faremo di tutto per non mangiarli, anche se la mamma o la nonna ci diranno che sicuramente fanno molto bene.

Tutti questi meccanismi di attrazione e repulsione, che influenzano non poco il nostro comportamento, hanno a che fare con il nostro cervello e il suo funzionamento, che diventa in qualche modo la chiave di tutto.

Gli scienziati che lo studiano ci dicono che il nostro cervello è un qualcosa di molto prezioso quanto complesso. Pensate, è composto da più di 100 miliardi di cellule nervose ognuna delle quali entra mediamente in contatto con altri 50 o 100.000 neuroni. Il numero di contatti nervosi possibili, ci dicono gli scienziati, supera il numero stimato di tutti i corpi celesti presenti nell’Universo.

Qualcosa di incredibile, di pazzesco solo a pensarci!!! È come, in un certo senso, se tutto l’Universo fosse compreso dentro il nostro cervello, che in effetti rappresenta in nostro universo personale dove sono racchiusi i nostri ricordi, quello che abbiamo imparato, quello che abbiamo vissuto, insomma la nostra intera storia.

Nel corso di milioni di anni questa preziosa parte di noi è cresciuta molto, specializzando le differenti aree in modo che il tutto funzioni in maniera armonica.

Gli scienziati nei loro laboratori di ricerca hanno scoperto, non tantissimi anni fa, una cosa importante che ci riguarda da vicino: ci sono aree del nostro cervello deputate a regolare la nostra percezione del piacere, come del resto ci sono aree deputate alla percezione del dolore. Anzi il come sono arrivati a questa scoperta vale la pena di raccontarlo perché, come a volte succede nella scienza, le scoperte avvengono per caso.

Nei primi anni Sessanta due brillanti ricercatori dell’Università di Los Angeles in California (James Olds e Peter Milner) stavano facendo delle ricerche sull’apprendimento  utilizzando delle cavie, cioè dei topolini da laboratorio, sì quelli bianchi e così carini. A ogni topolino era stato piantato un elettrodo in una certa area cerebrale allo scopo di verificare l'eventuale ruolo giocato dalla stimolazione reticolare sull'apprendimento del percorso di un labirinto. L’elettrodo era collegato attraverso un filo ad un generatore di corrente e lo sperimentatore, premendo un pulsante, inviava a sua discrezione una leggerissima scossa all’elettrodo e quindi al cervello del topolino. Ma commisero un errore. Notarono che un topolino si comportava in maniera anomala rispetto agli altri, in quanto tendeva a ritornare di continuo in un punto del labirinto dove aveva ricevuto la stimolazione elettrica agita dai ricercatori attraverso il generatore di corrente. Si incuriosirono e andarono a vedere, scoprendo che l'elettrodo non era stato collocato nella zona che loro avevano previsto per l’esperimento ma leggermente spostato.

Siccome erano due tipi curiosi, si interessarono a quel topolino e così decisero di dargli la possibilità di premere una leva che permetteva l'invio di una leggera scossa elettrica sull’elettrodo “fuori posto”. Scoprirono così che il topolino appena metteva involontariamente la zampina sulla leva finiva per passare quasi tutto il tempo a premere la leva inviandosi così continui stimoli al cervello. Di fronte ad un comportamento così sorprendente si incuriosirono ulteriormente al punto da provare con altri topolini, a cui collocarono l’elettrodo proprio nello stesso punto del primo. Notarono che anche loro dopo un po’, scoprendo una relazione fra il premere la leva e il ricevere la leggera scossa, venivano presi dalla frenesia del premere continuamente quella leva.

I ricercatori pensarono che quelle stimolazioni dovevano dare delle sensazioni estremamente gratificanti e piacevoli visto il curioso comportamento dei topolini e conclusero che forse in quell’area poteva esserci una sorta di "centro cerebrale del piacere", un centro che se stimolato dava delle sensazioni particolarmente piacevoli. Non contenti, come del resto devono essere dei ricercatori scrupolosi, ripeterono più volte quegli esperimenti non solo con altri topolini, ma anche con animali più evoluti come le scimmie Rhesus, ponendo i vari animali a volte affamati, a volte assetati nell'alternativa di scegliere fra il premere la leva che avrebbe dato loro cibo o acqua e la leva che avrebbe stimolato l'area cerebrale interessata, scoprendo ancora una volta, che gli animali preferivano più autostimolarsi che alimentarsi, dando nel tempo chiari segni di deperimento fisico da fame o da sete.

Questi esperimenti vennero poi ripetuti anche da altri ricercatori in altre università e alla fine si stabilì che effettivamente nel cervello ci sono non un unico centro, ma più punti predisposti a modulare tutte quelle sensazioni che proviamo quando stiamo facendo qualcosa che diremmo piacevole. Questi punti che vanno a comporre il cosiddetto “sistema di ricompensa” interessano più aree, dalla corteccia cerebrale (lobi prefrontali) al sistema limbico, un’area specializzata nell’elaborare i nostri stati d’animo e nel modulare le nostre emozioni.

Cosa ci dice questa storia?

Beh, che gli esseri umani sono predisposti a provare piacere più o meno intensamente, ma non avevamo certo bisogno della scienza per scoprirlo, lo sapevamo già. Quante volte ci siamo emozionati giocando a pallone, o al computer, o alla play station, oppure durante la visione di un film che ci ha particolarmente coinvolti, o di fronte alla vittoria della nostra squadra del cuore in cui ci sentivamo pervadere da quella sensazione di pienezza mista di eccitazione e gioia?

Certo però che una cosa interessante c’è. Se la Natura ci ha provvisto di questa capacità di provare piacere, una qualche ragione ci sarà pure da qualche parte. Infatti vediamo che le cose che ci procurano piacere, come abbiamo già notato, sono spesso legate al gioco, agli affetti, alle relazioni con gli altri e al cibo, tutte cose che sono necessarie alla sopravvivenza. È come se la Natura  avesse predisposto dei meccanismi biologici che associano attività funzionali all'evoluzione della specie al piacere, come garanzia di attrazione e coinvolgimento in modo da garantire la possibilità di sopravvivenza.

Pensate  a cosa succederebbe se non si provasse piacere nel mangiare, o nello stare con gli altri, o nell’entrare in intimità con l’altro sesso? Non ci sarebbe sopravvivenza, né riproduzione della specie. Quindi la Natura ha predisposto dei meccanismi biologici, che diventano solo in un secondo momento psicologici, i quali ci condizionano e ci legano a cose o a persone o a situazioni e da cui inevitabilmente dipendiamo, perché proprio da queste situazioni dipende la nostra crescita, il nostro sviluppo e quindi la nostra autonomia. La strada dell’autonomia, come abbiamo già detto, passa attraverso la dipendenza.

Ma allora dove sta il problema, se dipendere è un processo normale anzi necessario per crescere?

I problemi cominciano quando i legami diventano troppo stretti, esclusivi e si protraggono nel tempo, così che invece di farci crescere ci soffocano, ci limitano, ci annullano.

Ad esempio si è scoperto (sempre i soliti scienziati!!) che le droghe, tutte le droghe, contengono delle molecole chimiche che vanno ad interferire, una volta assunte, proprio con il nostro cervello. E sapete dove? Vanno ad agire proprio in quelle aree che compongono il sistema di ricompensa, quelle aree che se sollecitate ci provocano una sensazione piacevole, esattamente come per i topolini dell’esperimento, che si trovano a pigiare forsennatamente la leva per procurarsi sensazioni piacevoli.

Le droghe agiscono in maniera diretta e artificiale esattamente come la leva e l’elettrodo dell’esperimento. Anzi potremmo dire che quei due  scienziati di Los Angeles, anche se probabilmente non se ne sono resi conto perché troppo eccitati e coinvolti dalla scoperta appena fatta, hanno assistito per primi a quella che si potrebbe definire la "creazione in diretta" di una dipendenza patologica costruita in laboratorio.

Infatti come si può definire la relazione che il topolino ha con la leva se non un rapporto di forte dipendenza con tutti i suoi connotati di ossessività e inarrestabile ripetitività? Il topolino sembra non poterne fare a meno, arriva a trascurare necessità vitali importanti come quelle alimentari pur di procurarsi sensazioni piacevoli. E questo ricorda molto da vicino il comportamento del tossicodipendente che è talmente preso dalla sua ossessione per la droga da arrivare a trascurare tutto il resto, consumandosi a poco a poco come hanno fatto i topolini.

Non sono solo le droghe che vanno ad interferire con questi centri, ma con diversa intensità tutte le attività piacevoli ed eccitanti. La differenza fra le droghe e le cosiddette dipendenze comportamentali, sta nel fatto che le prime, essendo sostanze chimiche, una volta assunte vanno direttamente a stimolare certe parti del cervello, mentre le altre ci arrivano indirettamente attraverso le emozioni che suscitano, perché vale la pena di dirlo, anche le emozioni che proviamo hanno una base biologica di tipo chimico.

Per questo quando si parla di dipendenze patologiche non ci si riferisce solo a droghe come l’eroina, la cocaina, la cannabis, ma anche all’alcol e al tabacco, o al doping, ci si riferisce anche in alcuni casi all’eccessivo coinvolgimento nei videogiochi o internet, o nei social media, oppure nel cibo quando il rapporto che si ha con esso diventa un’ossessione che sfugge al controllo.

Ecco allora che il legame con qualcosa che ci piace, se non stiamo attenti può trasformarsi in qualcosa di pericoloso. Quando vediamo che un’attività (ad esempio il gioco) o una cosa (ad esempio l’alcol) ci coinvolge troppo, ecco che vale la pena preoccuparsi, perché forse senza accorgercene stiamo scivolando verso una situazione di dipendenza patologica che ci condiziona e ci limita nelle nostre scelte.

La differenza fra noi, esseri umani e i topolini dell’esperimento è che noi abbiamo la possibilità di scegliere fra ciò che ci fa bene e ciò che ci fa male possiamo decidere di conseguenza cosa è opportuno fare, mentre loro questa possibilità non l’hanno avuta.

 

Pubblicato il 20.02.2022