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La Realtà delle Cose (1^ parte)

di Doriano Dal Cengio

Attualmente in ambito scientifico coesistono due differenti visioni che si rifanno a due diversi paradigmi, il modello meccanicistico di natura newtoniana che ha dominato il fare scienza negli ultimi cinque secoli e l’altra visione che facendo riferimento alle novità introdotte dalla prospettiva quantistica sta elaborando un paradigma basato sull’interconnessione di tutti i sistemi (visione olistica). L’interesse che stiamo avendo per questo confronto riguarda i riflessi che il nuovo paradigma sta apportando nel campo delle discipline che si occupano di sviluppo e crescita personale, di salute e malattia, passando per quei processi che sono alla base della guarigione in senso lato.

 

Scienza e realtà

La scienza, come è noto, nasce nel Seicento con la definizione del metodo sperimentale proposto da Galileo Galilei. In precedenza la verità delle cose, almeno in Occidente, veniva definita e imposta in modo dogmatico e fideistico dalla religione. Il metro di misura erano le sacre scritture che la Chiesa interpretava, tutelava e diffondeva. La vicenda umana, oltre che scientifica di Galilei, testimonia non solo “lo spirito del tempo” ma anche ciò che poteva essere definito come vero e cosa invece no. Un uomo colto, studioso, che si era guadagnato la stima degli accademici del suo tempo, fra gli inventori del cannocchiale, con cui aveva scrutato il cielo arrivando a convincersi della verità eliocentrica di Copernico, si trovò costretto, per salvarsi dall’Inquisizione ed evitare la fine toccata pochi anni prima a Giordano Bruno, a rinnegare, all’età di 70 anni, le sue convinzioni esposte nel libro Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) in cui affermava che era la Terra a girare intorno al Sole e non il contrario come sosteneva la teoria geocentrica di Tolomeo, accettata dalla Chiesa. Indagare con curiosità e mente aperta la realtà delle cose appariva quindi pericoloso se le osservazioni portavano a contraddire ciò che “doveva” essere ritenuto e dichiarato vero. L’abiura di Galilei, che gli salvò la vita ma non la prigionia, rende bene l’idea di come fosse difficile indagare la realtà con spirito critico facendosi guidare dall’osservazione scrupolosa.

Cartesio (Renè Descartes) qualche anno dopo, visto la sorte toccata a Galileo, fu più prudente e si ritiene che sia stato lui ad operare una sorta di compromesso che ha permesso alla scienza di nascere senza incorrere nel giudizio dogmatico della Chiesa. La sua divisione fra Res extensa e Rex cogitans sancì una divisione di campo tra il mondo visibile e quello dell’invisibile, tra il mondo della materia che si poteva indagare con strumenti matematici e il mondo dello spirito, della mente, dell’anima, che non potendo essere osservabile e misurabile non poteva essere oggetto di studio e quindi veniva lasciato di competenza religiosa. Cartesio, considerato il fondatore della filosofia moderna, con questa premessa sancì la divisione fra mente e materia, divisione che per secoli venne ritenuta valida e condivisa. Così la scienza trovò un suo spazio e la religione conservò il proprio e questo permise l’avvio dello studio della natura. Alcuni decenni dopo arrivò Isaac Newton, inglese, persona brillante, dalla cultura vastissima, considerato tutt’ora uno degli scienziati più grandi di tutti i tempi, fondatore della fisica classica. I suoi studi, sulla luce che considerava fatta da corpuscoli, anticipando in un certo senso il concetto di particella della meccanica quantistica, le sue osservazioni sulla forza di gravità, sul movimento dei pianeti, tenuti in equilibrio dalla legge di gravitazione universale fatta di pesi e contrappesi (dal latino gravitas, peso), divennero la base su cui si costruì il pensiero scientifico nell’età dei Lumi e successivamente.

Secondo Newton, riprendendo in parte la teoria atomistica di Democrito, l’Universo è composto da particelle materiali solide, su cui agiscono delle forze che le aggregano e le fanno muovere (forze gravitazionali). Dio ha creato la materia e le forze del moto, in questo modo l’Universo fu posto in movimento e da allora ha continuato a funzionare come una macchina governata da forze immutabili. Il funzionamento di questa gigantesca macchina cosmica era di conseguenza stabile e lo scopo della scienza era capire le leggi che la governavano, perché individuate le leggi ecco che la natura e i suoi fenomeni diventavano conoscibili, misurabili e prevedibili sia a livello macroscopico che microscopico.

Si afferma così una posizione meccanicistica e deterministica della realtà, basata sulla stabilità delle cose (materia ed energia), sulla dimensione dello spazio e del tempo che vengono considerate costanti assolute e sulla logica di causa ed effetto (principio di causalità). La ricerca scientifica decolla e inizia lo studio della natura che si segmenta nel tempo in varie discipline sempre più specialistiche. Tuttora questa visione è dominante in vari campi, ad esempio in medicina persiste l’idea di una divisione fra corpo e psiche, come persiste ancora l’idea dell’uomo-macchina. Siamo composti da vari organi collegati fra loro il cui buon funzionamento permette la salute, salute che si perde quando un organo comincia a non funzionare bene, per cui ci si occupa della cura dell’organo malato per tornare alla salute, un po’ come si fa con l’auto quando qualcosa non va, ci pensa il meccanico che sostituendo i filtri, o cambiando la cinghia di trasmissione, o il disco dei freni, ripristina la funzionalità dell’auto. Anche in psicologia se si va a vedere, pur essendo una scienza relativamente recente, i presupposti su cui nasce sono in linea con la visione newtoniana della realtà, basti pensare al behaviorismo di Watson e Skinner, in cui vengono esclusi i processi di pensiero perché non osservabili e ci si basa solamente sul comportamento in quanto realtà visibile. In questo senso pur accettando l’idea di mente si preferisce riflettere su ciò che è osservabile sostenendo la possibilità di agire sul comportamento ragionando all’interno della logica stimolo-risposta. Anche la psicoanalisi di Freud seppur in modo diverso, è figlia del suo tempo, infatti nonostante gli aspetti rivoluzionari per l’epoca (v. processi inconsci, sessualità infantile, lo studio dei sogni etc.), Freud parla si strutture psichiche (prima e seconda topica), parla di forze che agiscono (pulsioni) di determinismo psichico (causa-effetto). Anche l’indagine del mondo interiore per essere legittimata doveva adeguarsi ad una logica meccanicistica cercando di definire a priori  una realtà, quella psichica, in termini di strutture organizzate, in cui agiscono delle forze secondo una logica deterministica.

 

La realtà non è quella che sembra

La situazione comincia a cambiare, agli inizi del Novecento. Si tende a far risalire la nascita della prospettiva quantistica con la pubblicazione nel 1905 da parte di Albert Einstein allora 26enne, di due articoli, riguardanti uno la sua teoria della relatività speciale e l’altro la radiazione elettromagnetica con particolare riferimento alla luce intesa come radiazione elettromagnetica che si comporta sia come onda che particella.

Va detto che prima di Einstein, intorno alla metà dell’Ottocento, il lavoro di Michael Faraday sulla scoperta e lo studio dei fenomeni elettrici e magnetici e la sistematizzazione teorica di Clerk Maxwell che portò alla teoria completa dell’elettromagnetismo, posero le premesse per una prospettiva che andava oltre la fisica newtoniana, in quanto sostituirono al concetto di forza che veniva fino a quel momento messa in relazione ai corpi su cui agiva, il concetto di campo, dove potevano agire forze non necessariamente collegate a corpi materiali. Si ritiene che questa prospettiva portò alla teoria elettrodinamica, secondo la quale la luce non è altro che un campo elettromagnetico che si sposta nello spazio sotto forma di onda.

Il lavoro di Einstein prosegue, con la sua teoria della relatività generale in cui vengono messi in discussione l’idea di spazio assoluto, inteso come scenario immutabile dei fenomeni fisici e l’idea di tempo assoluto, lo spazio e il tempo diventano relativi rispetto alla velocità. Più ci si avvicina alla velocità della luce e più lo spazio e il tempo, ma anche la massa, sostiene Einstein, cambiano.

L’altro aspetto importante introdotto da Einstein è l’idea che la massa e quindi la materia non è altro che una forma di energia introducendo così lo studio della realtà subatomica. Più si indaga e più ci si addentra nello studio della materia cercando di arrivare agli elementi “ultimi”, alle componenti più piccole che la compongono, andando quindi oltre agli atomi e più gli scienziati si trovarono di fronte ad aspetti “bizzarri e paradossali”. A livello subatomico la realtà non sembra leggibile e quindi conoscibile secondo la logica newtoniana, ma necessitava di altre leggi interpretative, tanto da portare Niels Bhorn, premio Nobel nel 1922 per la fisica, proprio per il suo lavoro sulla struttura dell’atomo, a dire “Chi non rimane sconvolto quando si imbatte per la prima volta nella teoria quantistica significa che non l’ha assolutamente compresa”.

Si scoprì che la struttura dell’atomo è composta da un nucleo attorno al quale si muovono gli elettroni legati al nucleo da forze di tipo elettrico. In un primo momento si pensò che fosse riprodotto in termini infinitesimali la struttura planetaria (logica newtoniana) che vede, per fare un esempio, la terra (nucleo) con la luna (elettrone) che le ruota intorno, poi si scoprì che l’orbita degli elettroni intorno al nucleo non è fissa, che la distanza (e quindi lo spazio) tra il nucleo e gli elettroni è enorme pur nell’immensamente piccolo e che tale spazio non è uno spazio vuoto, ma denso di energia, che a seconda di come la si osserva, si coglie la presenza ora di particelle (materia) ora di onde (energia) esattamente come sosteneva Einstein a proposito della luce, la quale è sia un’onda (radiazione elettromagnetica) che particella (fotone). Sarà proprio Einstein partendo dal lavoro di Max Planck, secondo cui l’energia della radiazione termica non veniva trasmessa in modo continuo ma a “pacchetti di energia”, a chiamare questi pacchetti di energia, quanti da cui derivò poi il nome di fisica o meccanica quantistica. La sua proposta fu che la luce come tutte le altre forme di radiazione elettromagnetica possono presentarsi non solo come onde elettromagnetiche ma anche sotto forma di quanti. I quanti di luce vennero in seguito accettati come particelle vere e proprie e chiamati fotoni, particelle in realtà molto particolari perché prive di massa e sempre in movimento ad una velocità costante, cioè alla velocità della luce.

Nel corso del Novecento l’interesse e gli studi sulla realtà subatomica e sulle leggi che la governano continuarono grazie all’impegno, oltre che di Albert Einstein, di diversi fisici come appunto il danese Niels Bohr, con cui Einstein ebbe vivaci e storiche discussioni, il francese Louis de Broglie, gli austriaci Erwin Schrödinger e Wolfgang Pauli, il tedesco Werner Heisenberg e l'inglese Paul Dirac, e successivamente di David Bohm, statunitense  e dell’irlandese John Stewart Bell per citare forse i più noti. Il loro confronto, le loro discussioni, le loro osservazioni, le loro ipotesi, rappresentano sicuramente uno dei momenti più eccitanti per la scienza moderna, anche per le considerazioni filosofiche che ne derivarono.

Ma a quale realtà ci troviamo di fronte secondo la prospettiva quantistica?

 

Dentro la materia: la realtà subatomica

La stabilità del reale proposta dalla fisica newtoniana si perde a livello subatomico, più si scompone la materia e meno ci si trova di fronte “ai mattoni fondamentali” che la determinano. A livello subatomico ci troviamo di fronte a processi dinamici che vedono coinvolti elementi determinati da forze che permettono interazioni, creando una fitta rete di relazioni, di interconnessioni che sfuggono ad una logica deterministica in quanto si presentano più come “onde di probabilità”, cioè probabilità di interconnessione, per cui tutte le leggi che governano la fisica subatomica sono espresse in funzione di probabilità. Tra le varie “assurdità” dell’universo quantistico si sostiene che non si può prevedere con certezza un evento subatomico, ad esempio la posizione o l’orbita di un elettrone, possiamo solo dire quanto è probabile che questo evento avvenga. Detto in altre parole, non si può conoscendo la velocità di movimento di un elettrone poterne stabilire la posizione nello spazio (principio di indeterminazione di Heisemberg) perché nella realtà subatomica gli elettroni si muovono attorno al nucleo non spostandosi da un’orbita all’altra e quindi attraverso lo spazio ma simultaneamente, cioè scompaiono da un'orbita e riappaiono in un’altra (salto quantico). Inoltre si ritiene possibile che due particelle correlate fra loro possono essere separate e collocate in due punti diversi dell’Universo ma al cambiamento di stato di una corrisponderà simultaneamente il cambiamento di stato dell’altra (entanglement quantistico introdotto da Schrödinger). Come dire che a livello subatomico, l’idea che normalmente abbiamo di spazio e di tempo che per ognuno di noi rappresentano le coordinate della realtà in cui viviamo, non hanno più valore ed è più utile al fine della comprensione parlare di interconnessione fra tutto ciò che esiste. Ma non è finita qui.

Bohr e Heisenberg nel 1927 sollevarono un’altra questione, passata alla storia come “l’interpretazione di Copenaghen”, che fece molto discutere (e irritare Einstein che vi si oppose con fermezza) riguardante il ruolo dell’osservatore nel processo di misurazione. Se, come si sostiene, la realtà subatomica è caratterizzata da una dimensione dinamica fatta da una complessa rete di relazioni che si esprime come funzione di probabilità, ogni processo di misurazione è inevitabilmente influenzato da chi effettua la misurazione, cioè da chi osserva. E’ l’osservazione che “collassa” come si usa dire, l’onda di probabilità trasformandola in particella visibile e misurabile, quindi il ruolo dell’osservatore diventa parte del processo di osservazione, cioè di misura. Per utilizzare una analogia che forse ci aiuta a capire, quando ci troviamo a fotografare una realtà in movimento, come ad esempio un uomo o un animale che corre, riusciamo sì a fotografare (collassare) la realtà di quel momento (immagine fotografata), ma questa realtà non rappresenterà il movimento né la dinamicità del processo in atto ma solo un frammento (particella) di una realtà in movimento (onda di energia), in cui la scelta dello scatto, implica molto la decisione del fotografo di farlo. Quella immagine, derivante dallo scatto fotografico non esiste nella realtà, perché la realtà è il movimento, diciamo che concretizza quindi “falsamente” un frammento che è collegato non al movimento in sé ma al fotografo e alla sua decisione di scattare la foto in un determinato momento. Da questo punto di vista potrebbero essere molteplici gli scatti possibili e ognuno sarebbe diverso dall’altro, è la scelta del fotografo che rende reale quel momento, scelto fra una infinita gamma di possibilità. Queste considerazioni portarono a estremizzare il ruolo dell’osservatore, per cui per stare nell’analogia fotografica “la realtà dello scatto” e la relativa immagine esiste solo per volontà del fotografo, così possiamo pensare che la realtà delle cose, la nostra realtà, esiste solo se la osserviamo e non perché esiste di per sé. In questa prospettiva diventa fondamentale il ruolo dell’osservatore ponendo, come vedremo, la questione della coscienza. Se l’Universo in cui viviamo è nella sua essenza fatto di relazioni che si interconnettono costruendo la realtà, è evidente che in ciò che è reale viene incluso anche l’osservatore, che diventa parte della relazione che lo lega a ciò che osserva. Questa interpretazione irritò talmente Einstein che rifiutandola lo portò a dire nelle sue discussioni con Bohr “…non posso pensare che la luna non esista quando non la guardo”.

E’ evidente che questo modo di interpretare la realtà subatomica, che ricordiamolo, è alla base di tutto ciò che esiste, noi compresi, mette in discussione l’ideale classico di una descrizione oggettiva della natura della realtà perché il punto di vista di chi osserva (soggettività) diventa fondamentale, in quanto chi osserva entra a far parte del processo di ciò che viene osservato.

Altro aspetto che si pone in linea con l’interconnessione a livello subatomico, è l’ipotesi dell’Universo Olografico di David Bohm con il quale, il fisico americano si spinge ancora più in là. Bohm prende spunto da una ricerca pubblicata agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, coordinata dal fisico Alan Aspect direttore del CNR francese, in cui si confermava che a determinate condizioni due particelle subatomiche potevano comunicare simultaneamente indipendentemente dalla loro distanza, fornendo la prova della connessione non locale fra particelle (entanglement). Bohm ipotizzò che questa connessione non fosse fra due entità separate ma connesse fra loro nello spazio, quanto che le due particelle a certi livelli non fossero affatto separate, perché entrambe parte dello stesso Organismo.

L’idea dell’ologramma immaginato da Bohm si rifà all’immagine olografica, che è una proiezione tridimensionale di un oggetto prodotta su una lastra fotografica, grazie all’interferenza di due raggi laser. Si è scoperto che una delle peculiarità di questa riproduzione fotografica è che la singola parte della lastra contiene l’intero oggetto o l’intera immagine, per esempio, se l’immagine di una rosa riprodotta su una lastra fotografica viene tagliata a metà e poi illuminata da un laser, si scoprirà che ciascuna metà contiene ancora l’intera immagine della rosa. Questa peculiarità ha suggerito a Bohm l’idea che l’intero Universo potesse essere una proiezione olografica, ipotesi che spiegherebbe la non località e l’interconnessione fra le parti. Se due particelle subatomiche rimangono in contatto indipendentemente dalla distanza che le separa è perché la loro separazione non esiste, è, come sostiene Bohm, un’illusione. In un Universo Olografico l’interconnessione è simultanea per cui non ha più senso parlare di parti del tutto, perché il tutto si riflette in ogni singola parte. Anche il concetto di spazio e tempo in una dimensione olografica perdono di significato perché non c’è più separazione e se non c’è separazione non c’è più un prima e un dopo o un qui ed un là, perché queste categorie appartengono alla dimensione locale che a questo punto potrebbe essere solo una proiezione specifica, o una dimensione fra le tante possibili di un sistema più complesso. Forse, ipotizza Bohm, siamo talmente abituati a vedere le cose secondo determinate categorie mentali che riusciamo a vedere solo una parte della realtà, o una porzione della realtà. Per questo l’osservazione della realtà subatomica e le relative considerazioni diventano disorientanti, perché spiazzano la nostra percezione della realtà.

 

La realtà è fatta di luce

Noi siamo portati a credere a ciò che vediamo. La realtà è tale perché così la vediamo. Il mondo, la realtà, le sue forme, i suoi colori, che noi siamo abituati a riconoscere, ha per noi un valore di continuità e stabilità. L’albero è quell’albero, il volto è quel volto, la rosa è quella rosa e così via Ma cosa vediamo realmente? In realtà noi vediamo la luce o meglio i suoi riflessi e le sue sfumature. E’ la luce lo strumento che ci permette di vedere la realtà così come la vediamo, in quanto le cose esistenti nella loro forma, consistenza e colore sul piano percettivo non sono altro che un “riflesso” di diverse frequenze elettromagnetiche scomposte della luce bianca, cioè lo spettro di radiazione elettromagnetica che per noi è visibile. E’ noto che il nostro sistema visivo è in grado di elaborare uno spettro di frequenze elettromagnetiche limitato, che va circa da una lunghezza d’onda di 400 nanometri, che corrispondono alla percezione visiva del colore viola, ai 700 nanometri circa, che corrispondono alla percezione del colore rosso. Sappiamo che la luce solare (luce bianca) comprende questa gamma di frequenze e che queste onde elettromagnetiche interagiscono con la materia dando spazio nell’incontro a vari fenomeni come quello dell’assorbimento, della riflessione, della diffusione ed altri ancora, creando una scomposizione dello spettro visibile in cui alcune frequenze vengono assorbite dalla materia altre invece vengono respinte cioè riflesse e sono proprio queste che noi vediamo. La scomposizione della luce bianca ci permette di vedere il mondo a colori.

Vale la pena ricordare che queste onde elettromagnetiche a frequenza variabile vengono captate dalle strutture nervose della nostra retina (coni e bastoncelli), vengono rielaborate in impulsi bioelettrici e inviate attraverso il nervo ottico nell’area del lobo occipitale, dove ha sede la ricostruzione dell’immagine che è poi quella che noi vediamo. Da questo punto di vista possiamo dire che ciò che vediamo realmente non è la realtà, ma una sua rielaborazione, una sua ricostruzione operata da ciò che in termini evolutivi ha portato o permesso, l’organizzazione di strutture neurali nel cervello umano atte a processare determinati stimoli.

Noi, per fare qualche esempio, non vediamo le frequenze elettromagnetiche degli ultravioletti, mentre le api e le farfalle si, noi non vediamo gli infrarossi mentre i serpenti si, alcuni animali per la conformazione della loro retina, vedono molto meglio di noi di notte come nel caso dei gatti o dei cani, anche se i gatti sembra che non riconoscano il colore rosso come del resto i cani, che oltre al rosso sembra non percepiscano il colore verde. Altri animali hanno una vista invece più organizzata di noi per vedere meglio da lontano come nel caso degli squali o degli uccelli rapaci e sono più limitati di noi nel vedere le cose da vicino. Quindi, qual è la realtà? Quella che vediamo noi o in nostro gatto? Oppure è più reale il mondo che vedono le api?

E’ chiaro che vista così la realtà diventa relativa e non assoluta, diventa un processo di ricostruzione a seconda degli strumenti che si hanno a disposizione per strutturarla e definirla e quindi può apparire in un modo piuttosto che in un altro.

Queste osservazioni ci portano su un altro livello che è esattamente quello introdotto dalla meccanica quantistica. La realtà non è quella che appare, ma è molto di più e di diverso. Come la percezione del mondo, del nostro mondo, cambia, se realizziamo l’idea che ciò che vediamo realmente sono frequenze d’onda composte da pacchetti di energia (fotoni) che nell’impatto della luce con la materia si frammentano e in parte si riflettono dando al nostro cervello, attraverso la mediazione della retina, l’impressione che gli oggetti che ci circondano abbiano una loro forma ed un loro colore, come i tasti del computer che sto usando per scrivere questo articolo mi appaiono scuri con disegnate sopra lettere chiare, la scrivania su cui poggia il mio portatile mi appare bianca e la tazza del caffè che ho appena bevuto, rossa. Tutto diventa relativo. La luce di fatto segna il confine fra il mondo visibile e quello invisibile, fra ciò che possiamo vedere e quindi conoscere (materia) e quello che non ci è concesso vedere ma solo immaginare o percepire (energia). E’ interessante constatare che questo confine è rappresentato proprio da un elemento, la luce, che è caratterizzato da una duplice natura che si manifesta sia come onda (energia) che come particella (materia).

 

Fisica e metafisica

L’importanza del paradigma quantistico che sta rivoluzionando la prospettiva con cui guardiamo il mondo sta proprio nel fatto che ci dà una rappresentazione della realtà diversa da quella che conosciamo e molto più articolata e complessa. Ci rappresenta una realtà fatta di energia. L’intero Universo è manifestazione di una energia vibrante che può apparire in forme diverse a seconda della densità con cui si esprime. La materia nella sua solidità è, possiamo dire, energia condensata che si attenua nella sua forma più liquida per essere ancora più instabile nella sua forma gassosa e così via, verso livelli di energia sempre più sottili. Livelli diversi di una stessa espressione dinamica che contempla e connette l’infinitamente piccolo con l’infinitamente grande. Queste considerazioni ci portano su un altro livello e ci costringono a riconsiderare quanto proposto dalle antiche tradizioni filosofico-spirituali, soprattutto quelle espresse dalla cultura orientale in cui certi concetti si ripropongono in modo simile seppur con linguaggi diversi.

A mettere in relazione queste due realtà ci ha pensato in epoca recente, l’austriaco Fritjof Capra, fisico e teorico dei sistemi, che nel 1975 dà alle stampe un libro destinato a diventare famoso, Il Tao della Fisica.

Capra mette a confronto la visione della realtà presente nelle varie tradizioni spirituali come il Buddhismo, l’Induismo, il Taoismo, lo Zen, con quella che lui chiama Nuova Fisica, cioè quella proposta dalla meccanica quantistica, evidenziandone le similarità.

Nelle sue considerazioni, in seguito fatte proprie anche da altri autori che come lui hanno cercato di proporre una visione globale o ecologica o olistica per usare termini entrati ormai nel linguaggio comune, l’Universo appare come manifestazione di un Campo di energia intelligente (Campo Quantico) da cui scaturirebbe ogni forma esistente, dalle galassie planetarie alla cellula più piccola. Queste diverse dimensioni della realtà sono strettamente interconnesse fra loro in quanto fatte della stessa “materia” che trova nella dimensione subatomica gli elementi di continuità in quanto alla base del Tutto troviamo onde, vibrazioni, energie, e soprattutto informazioni. E’ la stessa idea che emerge dalle varie tradizioni spirituali dove si fa continuo riferimento ad una realtà ultima, invisibile e indivisibile, da cui hanno avuto origine tutte le cose e di cui tutte le cose fanno parte (interconnessione). Nella tradizione giudaico-cristiana questo principio creatore assume il nome di Dio (Jhavè), che creò ogni cosa nell’Universo, nell’induismo prende il nome di Brahman, con cui si intende il principio fondante dell’Universo, il filo conduttore della connessione cosmica, infinito e inconoscibile che si trova riflesso nell’essere umano assumendo il nome di Atman. E’ l’anima, l’essenza più profonda dell’essere umano, che anche nella tradizione giudaico-cristiana rappresenta l’elemento di collegamento col divino, è la scintilla divina a cui accenna Carl Gustav Jung e varie tradizioni spirituali ed esoteriche. Nel taoismo, abbiamo il Tao che incarna molte cose, sia la realtà ultima, indefinibile, da cui scaturisce l’Universo ma anche il processo cosmico stesso, definito dal suo essere, continuo movimento e continuo mutamento che si manifesta come espressione della dinamica degli opposti, rappresentato dalla compenetrazione di due principi: yin il principio femminile e yang il principio maschile, che richiamano molto il principio della polarità positiva e negativa alla base dell’elettromagnetismo.

E’ curioso notare che nello stesso periodo in cui Lao Tzu il leggendario fondatore del taoismo (Lao Tzu in cinese significa vecchio saggio) dettava le basi di questa visione filosofica, in Grecia il più “taoista” dei filosofi greci, Eraclito di Efeso ripropone l’idea del panta rhei, del tutto scorre, dell’incessante movimento che anima tutte le cose. L’idea che tutto fluisce in un costante cambiamento e continuo mutamento, per cui l’essenza della realtà delle cose è il loro mutamento e la loro trasformazione, fa venire in mente il moto più recente del … nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma, di Lavoisier il chimico del Settecento che così sintetizza il suo principio di conservazione della massa e dell’energia. E’ questa idea del movimento continuo, della vibrazione continua che anima l’intero Universo in una sorta di danza cosmica, che spinge Frjtiof Capra ad immaginare che questa caratteristica proposta dalla fisica quantistica si riassuma simbolicamente nella danza di Shiva (Nataraja) il danzatore cosmico, che con la sua danza cosmica crea, distrugge e ricrea tutte le cose. La danza di Shiva simboleggia non solo la vibrazione cosmica presente a livello subatomico in tutta la materia, ma anche più in generale i cicli naturali che con la loro alternanza sembrano riproporre il movimento di una  danza, che nella nostra esperienza sono rappresentati dai cicli di vita, morte e rinascita che ritroviamo nell’alternarsi delle stagioni, nel ciclo lunare, nel giorno che muore trasformandosi in notte per poi rinascere a nuovo giorno e così via in tutte le dualità che si alternano nella circolarità dei ritmi naturali ben rappresentate nella cultura cinese dal gioco degli opposti, yin e yang. La danza di Shiva rappresenta la mutevolezza delle cose e della condizione umana e ci ricorda che le molteplici forme in cui ci si rappresenta la realtà, la nostra realtà, non è altro che Maya, cioè illusione, termine usato nella filosofia induista per rappresentare l’ingannevole illusorietà delle cose, perché nella creazione e mutamento continuo, ogni idea di definizione della realtà come costante, certa e statica è pura illusione, concetto questo centrale come abbiamo visto anche dalla meccanica quantistica.

Che le osservazioni e le ipotesi formulate dai fisici quantistici sollevassero questioni che andavano oltre la fisica per “invadere” un terreno metafisico era evidente e inevitabile. Di questo sembra ne fossero consapevoli anche i pionieri della visione quantistica a giudicare dalle loro biografie, infatti molti di loro si interessarono e approfondirono “visioni parallele”.

Wolfgang Pauli, premio Nobel per la fisica nel 1945, si interessò di psicoanalisi, di archetipi e di alchimia. Rivoltosi a Carl Gustav Jung, per problemi personali i due condivisero nel tempo riflessioni e interessi. E’ noto che il principio di sincronicità o principio di nesso acausale fra eventi, che è uno degli aspetti più noti del pensiero di Jung assieme al lavoro sugli archetipi universali e sull’inconscio collettivo, è nato dal confronto con Pauli.

Niels Bhor si interessò alle filosofie orientali approfondendo in particolare la filosofia cinese e il taoismo. Rimase infatti molto colpito dalle speculazioni proposte dal taoismo in cui colse molte analogie con le speculazioni verso cui si stava orientando la fisica quantistica, al punto che quando nel 1947 ricevette un titolo nobiliare per gli studi fatti e i suoi contributi scientifici, scelse come simbolo per il suo stemma quello del Tao con i due principi di yin e yang che si compenetrano all’interno del cerchio, che li racchiude, simbolo di unità.

Erwin Schrödinger invece si interessò di filosofia induista e sembra fosse un conoscitore interessato della Advaita Vedanta, una disciplina filosofica derivante dalle Upanisad parte integrante dei Veda, gli antichi testi della tradizione induista. Profondo conoscitore dell’opera di Schopenhauer, ma anche di Nietzsche e del pensiero greco, Schrödinger rimase affascinato dall’idea che il mondo fisico fosse espressione di una Mente universale o realtà assoluta (Brahman) che si manifestava e si percepiva come moltitudine ingannevole e illusoria (Maya) ma interconnessa perché nella realtà delle cose tutto è interconnesso secondo una logica non duale ma unitaria (entanglement). 

Forse ancor più di Schrödinger, Werner Heisenberg incarna l’idea di scienziato e filosofo, infatti nella sua produzione letteraria si ritrovano vari scritti in cui tratta entrambe le discipline. Interessato alla filosofia greca che lo appassionò negli anni del liceo, rimase particolarmente affascinato dal Timeo di Platone e ritenne che molte delle scoperte a cui stava giungendo la fisica moderna fossero in qualche modo già presente nel pensiero platonico.

Su una scia simile troviamo anche David Bohm, che sviluppa i suoi studi in ambito fisico spingendosi ad ipotizzare l’idea di un Universo organizzato su due livelli, uno caratterizzato da un ordine implicito (organizzazione olografica dell’Universo) che non possiamo percepire e l’altro un ordine esplicito che è l’interpretazione che noi facciamo della realtà, interpretazione mediata dall’elaborazione che il nostro cervello fa della realtà fenomenica. A questo proposito va segnalata anche la collaborazione di Bohm con Karl Pribram, neuroscenziato dell’università di Stanford, che come vedremo più avanti, propose l’idea di un funzionamento olografico del cervello.

David Bohm, per la sua adesione al Partito Comunista, fu una delle tante vittime della cosiddetta “caccia alle streghe” per cui molti intellettuali statunitensi negli anni Cinquanta finirono a processo per le loro idee politiche. Questo gli impedì di accettare la collaborazione con fisici come Oppenheimer e lo stesso Einstein. Fu costretto a lasciare gli Stati Uniti andando ad insegnare in varie università in Brasile, Israele approdando agli inizi degli anni Sessanta a Londra dove assistiamo ad una ulteriore svolta nei suoi interessi intellettuali. Assecondando un suggerimento della moglie Sarah, decide di leggere La prima e ultima libertà, un libro del filosofo e mistico indiano Juddu Krishnamurti. Ne rimase talmente colpito che si procurò tutti i libri pubblicati fino ad allora da Krishnamurti e alla fine decise di incontrarlo in Svizzera dove spesso risiedeva e teneva i suoi celebri discorsi oppure a Londra quando vi veniva.

Bohm intravvedeva nella filosofia di Krishnamurti, soprattutto per quanto riguarda la sua idea di coscienza e del ruolo del pensiero nella costruzione della realtà, un riflesso delle sue idee espresse in ambito fisico. L’idea di Krishnamurti che il “pensatore è il pensiero”, che “l’osservatore è l’osservato” in fondo ripropone quanto già sollevato dalla fisica quantistica sul ruolo dell’osservatore  nello studio della realtà, unitamente al grande risalto che Krishnamurti dava alla meditazione come strumento per andare oltre la mente analitica che è lo strumento con cui interagiamo e interpretiamo la realtà per aprirsi ad una dimensione silenziosa e intuitiva che predispone ad un altro tipo di conoscenza della realtà, affascinarono molto Bohm.

Dai loro incontri nascerà un libro, Dove il tempo finisce (1985), in cui vengono riportati i dialoghi fra il maestro spirituale e il famoso fisico teorico, mentre si confrontano e si interrogano sulla natura umana, sul disagio dell’uomo contemporaneo, sulle sue divisioni interiori, sul tema della libertà, sul futuro dell’umanità e così via.

 

Il Campo Quantico e i corpi sottili

Sulle osservazioni introdotte dalla meccanica quantistica si sono sviluppate nel tempo riflessioni che portarono ad immaginare l’Universo come una vasta ragnatela dinamica fatta di scambi di energia, in cui la realtà si esplicita in più dimensioni che sono espressione di energie con frequenze e potenziali diversi. Il vuoto in sé non esiste, né a livello subatomico né a livello planetario, esiste una densità di vibrazioni differenziate e interconnesse che danno l’idea di un articolato ed enorme Campo di energia che compenetra il tutto. E’ questo che intendeva Einstein quando diceva tutto è energia e questo è tutto ciò che esiste”. In questo Campo le frequenze e quindi il livello vibrazionale vanno da un livello estremamente sottile (energia del punto zero) ad un livello di densità maggiore che esprime la materia come noi la conosciamo. Ovviamente questa pluridimensionalità ci riguarda perché anche noi facciamo parte del Campo e anche noi vibriamo a frequenze diverse. Questo ci porta a riconsiderare quanto le varie scuole o discipline mistico/esoteriche hanno detto in passato rispetto all’essenza dell’essere umano.

Pensiamo per esempio a Rudolf Steiner, filosofo austriaco praticamente coetaneo di Einstein e di Freud, figura poliedrica nel panorama culturale a cavallo del Novecento. E’ stato il padre dell’Antroposofia, disciplina vicina alla Teosofia a cui Steiner aderì rivestendo ruoli di primo piano, per poi prenderne le distanze per divergenze con l’allora presidente della società Teosofica, Annie Besant soprattutto, ma non solo, per il ruolo profetico che la Besant attribuiva alla figura di Juddu Krishnamurti. Aderì alla massoneria, si occupò di educazione (fondatore della scuola antroposofica di Waldorf), si occupò di medicina (fondatore della medicina antroposofica) di agricoltura (ispiratore dell’agricoltura biodinamica), si occupò di spiritismo e chiaroveggenza. Autore e conferenziere prolifico, in un testo del 1910, La scienza occulta nelle sue linee generali, parla dell’essere umano e dei suoi corpi attingendo a tradizioni sia teosofiche che spiritualistiche. Lui parla di 7 corpi in ordine: il corpo fisico, il corpo eterico, il corpo astrale, l’Io, il sé spirituale, lo spirito vitale e l’uomo-spirito. Questi sette corpi che per associazione richiamano i sette colori dello spettro di luce visibile e le sette note che formano la scala musicale, rappresentano dimensioni diverse della stessa realtà, l’essere umano. Altre scuole come ad esempio quella dei Rosacroce, antico ordine segreto risalente al diciassettesimo secolo, parlano di 4 corpi e precisamente: il corpo fisico, il corpo vitale, il corpo astrale e il corpo mentale. Nell’ambito delle scuole esoteriche di tradizione orientale spesso si fa riferimento a 5 corpi: corpo fisico, corpo eterico o pranico, il corpo emozionale o astrale, il corpo mentale, il corpo spirituale o corpo causale. Ci sono ovviamente delle differenze tra una scuola e l’altra e anche il numero dei corpo sottili varia, alcune scuole accorpano altre suddividono, ma quello che ci interessa mettere in evidenza è che nell’ambito della ricerca interiore, tutte le scuole o discipline che studiano e promuovono l’evoluzione umana, accennano a più dimensioni dell’essere umano che convivono nella stessa persona.

I corpi sottili sono corpi di energia differenziata che vibra a frequenze diverse. Nell’insieme costituiscono l’Aura, il campo elettromagnetico che circonda la persona, si parla poi di canali dove le varie energie scorrono (nello yoga si parla di nadi e di meridiani nella medicina cinese) si parla di centri energetici nel corpo che sono punti di contatto, di scambio e di integrazione energetica (i chakras nella filosofia yoga). Per capirci, il cuore è un organo fisico, ma in queste tradizioni, il cuore ha anche un suo corrispettivo nel campo eterico o in quello astrale e così via, la materia vivente si esprime a vari livelli. Alcuni studiosi e ricercatori ritengono che ognuno di noi può entrare in contatto con il Campo Quantico, attraverso le frequenze emesse dai singoli corpi che diventano i punti di contatto con le energie sottili dell’Universo. Giusto per fare un esempio, nel mondo della materia ci muoviamo col corpo fisico che è fatto di materia, con il corpo eterico o pranico si entra in contatto con l’energia vitale presente nell’Universo. Tutte le tradizioni antiche sostengono l’esistenza di una energia che pervade l’intero Universo e che anima gli organismi viventi. Nell’ambito della filosofia yoga derivante dalla tradizione Vedica si parla di prana che in sanscrito significa soffio vitale. Nell’ambito della tradizione cinese e nel taoismo, si parla del ch’i, (o Qi) che in cinese viene tradotto come essenza, ma che soprattutto sta ad indicare l’energia vitale che anima il corpo, come l’intero Universo. Nella filosofia giapponese viene espressa nel Ki che assume lo stesso significato attribuito al ch’i o al prana. Con i corpi successivi, mentale e spirituale si entra in contatto con la mente universale e con lo spirito universale (puro spirito) del Campo che vibra sulle stesse frequenze.

Sostanzialmente le pratiche proposte dalle varie discipline mistiche o spirituali o esoteriche, sono funzionali a permettere questo contatto. Nell’ambito delle tradizioni antiche non si parla ovviamente di Campo Quantico, si parla del divino, si parla di spirito, si parla di connessione tra l’anima personale e l’anima universale, si parla di riconnettere il Sé personale con il Sé Superiore, di connettere l’Atman con il Brahman e così via. Volendo andare oltre al linguaggio ci sembra che si parli della stessa cosa, perché quando si parla di un Campo di energia intelligente da cui ha avuto origine tutte le cose ci sembra si parli sostanzialmente di Dio così come viene concepito nelle varie tradizioni mistico-religiose.

 

Pubblicato il 13.08.2019

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