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Adolescenti Difficili

di Doriano Dal Cengio

 

L’Adolescenza si sa è una fase della vita critica e difficile, che segna il passaggio dal mondo dell’infanzia a quello dell’età adulta. E’ una “terra di mezzo” in cui si soggiorna per una decina d’anni avendo come scopo evolutivo quello di prepararsi all’ingresso nella società degli adulti. In questo senso possiamo dire che è una fase della vita sicuramente instabile e confusa per tutti, ma che diventa una fase pericolosa e rischiosa solo per alcuni, per quelli che in questo articolo chiameremo Adolescenti Difficili.

Sono quegli Adolescenti dalle storie complicate, che transitano da un servizio all’altro, dai Servizi Sociali dei Comuni ai Servizi per le Dipendenze, dai Servizi di Neuropsichiatria infantile e Psicologia Evolutiva alle Comunità educative per minori, dai Consultori per Adolescenti ai Servizi Psichiatrici Territoriali, magari dopo essere passati dal Pronto Soccorso dove sono arrivati in coma etilico o in stato di intossicazione acuta da sostanze stupefacenti. Sono quelli a cui, nel corso del tempo, vengono appiccicate varie etichette diagnostiche: disturbo da deficit dell’attenzione, disturbo di iperattività, disturbo della condotta, disturbo oppositivo-provocatorio, disturbo da comportamento dirompente, disturbo antisociale della personalità, disturbo borderline della personalità, disturbo da uso di sostanze, disturbo dell’umore da uso di sostanze, disturbo dell’umore, disturbo del controllo degli impulsi e altro ancora.

Chi li conosce sa bene che prima di essere etichettati come Adolescenti Difficili, sono stati dei bambini difficili e dei ragazzi difficili che si sono fatti notare per le loro difficoltà durante l’iter scolastico, sono persone solitamente cresciute in famiglie altrettanto difficili e la loro storia è una storia connotata da varie difficoltà, che si possono riassumere in una scarsa capacità di adattamento ai vari contesti sociali: famiglia, scuola, mondo associativo, gruppi di pari etc..

In questo articolo vorremmo cogliere l’occasione per proporre una riflessione che permetta di riflettere sullo sviluppo psichico e sull’evoluzione personale, su come si organizza la personalità  dell’individuo nel corso del tempo e in particolare di quel tempo detto evolutivo, che accompagna l’ingresso nella società degli adulti, perché è evidente che nel caso dei cosiddetti Adolescenti Difficili, qualcosa non è andato nel verso giusto, qualcosa non è andato come avrebbe dovuto o come si sarebbe sperato.

  

Jean Piaget e la sua teoria della Conoscenza

Jean Piaget è considerato uno dei grandi pensatori del Novecento, svizzero di origine, è stato molte cose: biologo di formazione si è interessato di psicologia, di psicoanalisi, di filosofia e di pedagogia, è considerato fra gli ispiratori del costruttivismo moderno ed è il fondatore dell’epistemologia genetica, una disciplina che si occupa di studiare come si costruisce la conoscenza. E’ all’interno di questa disciplina che propone negli anni Cinquanta la sua teoria dello sviluppo cognitivo, con la quale cerca di definire come si sviluppa l’intelligenza nel bambino e poi nel ragazzo e nell’adolescente e di conseguenza come l’individuo in queste prime fasi della vita costruisca la sua conoscenza di sé e del mondo.

Ci sono degli assiomi della sua teoria che vale la pena ricordare perché faremo riferimento a questi concetti per snodare la nostra riflessione. Piaget è stato fra i primi a sottolineare con forza che la Vita è Apprendimento. Non solo nell’essere umano ma in generale, è la Vita stessa che per riprodursi, prolungarsi, sopravvivere ha bisogno di apprendere. L’adattamento che ha permesso l’evoluzione della Vita nel nostro pianeta è avvenuta perché i vari organismi sono riusciti ad assimilare le informazioni provenienti dall’ambiente, sono riusciti ad elaborarle trovando il modo di mettere in atto azioni adattive che hanno permesso la sopravvivenza. Per Piaget l’apprendimento è  un processo dinamico fra organismo e ambiente. Nella sua visione l’interazione fra organismo e ambiente produce esperienza e l’esperienza veicola informazioni all’organismo, informazioni che elaborate diventano apprendimento.

Questo è quanto oggi sostengono anche le Neuroscienze. Anche in quest’ambito si ritiene che l’esperienza veicoli informazioni al cervello attraverso gli organi di senso e le vie nervose afferenti,  lasciando una traccia a livello neurale (costruzione di nuove sinapsi e nuovi collegamenti neurali). Queste tracce interessano sia il livello cognitivo che emotivo dell’esperienza diventando, soprattutto se ripetute e rinforzate, apprendimenti. La questione non riguarda solo il ricordo di un evento in sé. Adesso sappiamo che l’informazione riguardante uno specifico evento viene scomposta, in fase di memorizzazione in vari elementi che vengono registrati in aree diverse del cervello (area visiva, olfattiva, tattile e così via) per cui quando un ricordo viene recuperato si assiste ad un processo in cui uno stimolo aggancia un aspetto del ricordo permettendo di procedere per via associativa alla ricostruzione dell’evento memorizzato. Questo processo non riguarda solo gli eventi ricordati, ma le memorie riconducibili a quel singolo evento, nel senso che non si ricorda solo ciò che è accaduto, ma anche ciò che sul piano esperienziale ha prodotto e quindi le emozioni provate, i significati attribuiti, le riflessioni elaborate. La conclusione a cui si è arrivati, è che intorno alle esperienze vissute si costruiscono significati che si articolano poi in costrutti mentali che diventano le lenti attraverso le quali guardiamo il mondo. L’esperienza in sostanza veicola informazioni che l’organismo acquisisce e rielabora attraverso due processi, secondo Piaget, che lui chiama, con un linguaggio oggi un po’ arcaico, di assimilazione e accomodamento.

Cosa significa? Che le informazioni veicolate dall’esperienza vengono assimilate e integrate nelle strutture mentali andando così a modificare il preesistente, cioè le strutture cognitive e gli schemi operativi elaborati da precedenti esperienze e che costituiscono la conoscenza acquisita fino a quel momento. Volendo andare all’origine dei processi di apprendimento diciamo che il neonato quando viene al mondo non è da un punto di vista psichico in uno stato di vuoto, non ci troviamo di fronte alla nota tabula rasa di aristotelica memoria, ci sono delle codificazioni genetiche che predispongono ad una reattività nei confronti degli stimoli ambientali (elementi genetici propri della specie, tratti genetici ereditati dai genitori, istintualità etc.) che rappresentano le basi su cui si innescano i processi di apprendimento. Il neonato reagendo agli stimoli ambientali inizia ad apprendere. La sua reattività e le sue manifestazioni di risposta esprimono quello che viene chiamato temperamento, che sta ad indicare come il neonato prima e il bambino poi reagisce agli stimoli ambientali e da questa interazione fra predisposizioni genetiche (temperamento) e stimolazioni ambientali si formerà nei primi anni il carattere che diventa la modalità del bambino di agire e re-agire nei confronti del mondo.

Nel corso del tempo le reazioni agli stimoli si strutturano dando vita a strutture mentali che agiscono mettendo in atto schemi operativi, cioè modalità di essere sia in termini di convinzioni (cioè pensieri), emozioni e azioni, cioè comportamenti. Nella prospettiva indicata da Piaget le nuove informazioni veicolate dall’esperienza, una volta assorbite (assimilazione), vengono integrate (accomodamento) con gli schemi preesistenti modificandoli, questo è l’apprendimento. Le esperienze servono ad arricchire la conoscenza e condizionano le scelte operative in quanto vanno ad aggiornare la mappa con cui ci si orienta nella vita. In un certo senso questo processo non riguarda solo l’età evolutiva ma accompagna l’intera esistenza mettendo l’individuo nella condizione di migliorare la sua capacità adattiva e di relazione con l’ambiente. Possiamo quindi dire che siamo il risultato delle esperienze che abbiamo vissuto e dei relativi apprendimenti acquisiti, perché l’intero bagaglio delle esperienze vissute determinano ciò che siamo o ciò che siamo diventati.

La domanda che ci poniamo adesso è: come gli apprendimenti acquisiti, frutto delle esperienze vissute, si strutturano per produrre identità, per produrre quindi una certa struttura dell’Io, cioè una certa organizzazione della personalità?

Per rispondere dobbiamo avere in mente un modello che ci possa orientare e chiarire come questi apprendimenti si strutturano. Ricordiamo che un modello in ambito psicologico, ma direi più in generale in ambito scientifico, non è la realtà, è un costrutto che ci aiuta a capirla in quanto un modello è una rappresentazione simbolica della realtà, un po’ come quando si dice, che la mappa non è il territorio, ma con una mappa in mano riusciamo ad orientarci nel territorio.

  

Eric Berne e la sua teoria della Personalità

Eric Berne è stato uno psichiatra e psicoterapeuta di origine canadese, figlio di genitori ebrei emigrati dall’Europa, nato nel 1910 nel quartiere ebraico di Montreal, con il nome di Eric Leonard Bernstein. Come il padre, studia medicina specializzandosi in psichiatria, per poi trasferirsi negli Stati Uniti dove cambia nome, diventando Eric Berne. Ha avuto il suo momento di gloria negli anni Cinquanta e Sessanta in California. A San Francisco fonda i Seminari di psichiatria sociale, che diventano il laboratorio da cui nasce l’Analisi Transazionale, la sua scuola psicologica e psicoterapeutica, che risente sia della sua formazione psicoanalitica, che del clima culturale e del fermento intellettuale che ha caratterizzato la California in quegli anni.

Non dimentichiamo che in quello stesso periodo in quell’area transitano vari personaggi che con le loro attività, le loro esperienze, i loro libri influenzeranno notevolmente sia il pensiero psicologico che la psicoterapia degli anni successivi.

In quel periodo è attivo a  Big Sur, Fritz Perls con la sua Gestalt-Therapy che terrà vari seminari all’Esalen Institute, incrociandosi lì con Abraham Maslow che ricordiamo è uno dei padri fondatori della Psicologia Umanistica assieme a Carl Rogers, il quale si trasferirà anche lui nel 1964 in California. Va inoltre ricordato che intorno all’Esalen Institute di Big Sur, fondato nel 1962 da Michael Murphy e Richard Price, si svilupperà quello che nel tempo verrà ricordato come il Movimento per lo sviluppo del potenziale umano, un movimento influenzato da vari terapeuti che terranno lì workshop e seminari favorendo contaminazioni teoriche, sperimentazioni cliniche ed esperienziali che lasceranno il segno nel modo di fare psicoterapia. E’ sempre all’Esalen Intitute che Richard Bandler, in quegli anni ancora studente di psicologia va a registrare la modalità comunicativa di Fritz Perls per analizzarla e studiarla, sottoponendola a John Grinder un linguista dell’Università di Santa Cruz. E’ l’inizio di un lavoro importante che vedrà la luce agli inizi degli anni ‘70 sempre in California e che prenderà il nome di Programmazione Neurolinguistica (PNL). Infine non si può ignorare la nascita nel 1960 presso il Mental Research Institute, della cosiddetta scuola di Palo Alto (dal nome della cittadina a sud di San Francisco) che vede l’interazione di Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Don D. Jackson e altri, che grazie agli studi sulla comunicazione umana e all’approfondimento della teoria generale dei sistemi di Ludwig von Bertalanffy, porteranno alla nascita del pensiero sistemico-relazionale, che influenzerà notevolmente sia la terapia strategica che la terapia della famiglia.

Negli anni Sessanta, Eric Berne arriva a definire meglio i costrutti teorici e clinici dell’Analisi Transazionale dando vita ad una scuola di formazione per la preparazione di psicoterapeuti. Centrale nella sua teoria sono gli Stati dell’I che costituiscono il suo modello di personalità.

L’Io, la nostra identità, ciò che ci rende visibili e riconoscibili agli occhi nostri e degli altri viene descritta come un sistema complesso organizzato in strutture appartenenti a piani evolutivi diversi, che lui chiama: Stati dell’Io. Per  Berne la personalità di ogni individuo è formata da tre Stati dell’Io: Il Bambino, l’Adulto e il Genitore, rappresentati graficamente in tre cerchi allineati verticalmente, ognuno sede di uno Stato dell’Io.

Come arriva Berne a costruire questa sua teoria?

Berne parte da alcune costatazioni semplici e condivisibili. Ognuno di noi è stato un bambino, ha avuto un’infanzia durante la quale ha vissuto svariate esperienze, esperienze che hanno veicolato informazioni che sono diventate apprendimenti, come direbbe Piaget. Le esperienze infantili sappiamo dalla psicoanalisi in poi, sono fondamentali nella costruzione della propria identità in quanto rappresentano la base su cui si vanno ad integrare le esperienze successive. Berne immagina che tutte queste esperienze con i loro connotati emotivi, cognitivi, relazionali finiscano in quel contenitore che lui chiama Stato dell’Io Bambino.

Siccome quando eravamo bambini il nostro rapporto col mondo era mediato dalle nostre sensazioni emotive e comunicavamo col mondo attraverso espressioni emotive, prima che il verbale si strutturasse in linguaggio, ricordiamo infatti che la prima forma di intelligenza definita da Piaget è quella chiamata senso-motoria, ecco che lo Stato dell’Io Bambino o il Bambino Interiore, come qualcuno più tardi comincerà a chiamarlo, rappresenta per ognuno di noi la parte più emotiva e sensibile. E’ potremmo, dire l’area del sentire e quindi la dimensione dove noi proviamo le varie emozioni, ma più in generale è la dimensione di tutto ciò che ha a che fare con l’emotività, e quindi possiamo immaginare che sia l’area dei bisogni o dei desideri, delle aspirazioni e delle intuizioni, dei sogni e della fantasia, della creatività, dell’immaginazione, della curiosità. Vista così è evidente che questa dimensione psichica, quella del nostro Bambino Interiore, è la parte più vitale della nostra personalità.

Allo stesso modo, sostiene Berne, ognuno di noi ha avuto dei genitori, o qualcuno che si è preso cura di noi garantendoci la sopravvivenza, in quanto sappiamo che il cucciolo d’uomo ha bisogno di un lungo periodo di accudimento per diventare autonomo. Possiamo quindi immaginare che  l’esperienza vissuta con i nostri genitori o le figure genitoriali di riferimento abbiano veicolato informazioni divenendo anch’esse apprendimenti. Detto in altre parole tutto ciò che abbiamo vissuto nella relazione con i nostri genitori e quindi il loro modo di essere, il loro modo di pensare, i loro valori, la loro visione del mondo, le loro credenze, il loro modo di relazionarsi con noi, siano state rielaborate e interiorizzate in quel contenitore o in quell’archivio dati che Berne chiama Stato dell’Io Genitore o Genitore Interno, come qualcuno lo chiamerà in seguito.

Il Genitore Interno però non è solo il contenitore di ciò che abbiamo vissuto con i nostri genitori, perché ognuno di noi ha avuto esperienze significative anche con altri adulti importanti. Di solito ci sono i nonni, che spesso hanno un ruolo di cura importante soprattutto nella prima infanzia, come altri membri della famiglia (fratelli, sorelle, zii etc.), poi ci sono le maestre della materna e poi quelle delle elementari e gli insegnanti delle medie, ma possiamo considerare anche il ruolo avuto nella nostra crescita di figure come l’allenatore sportivo, l’animatore di un gruppo che abbiamo frequentato da piccoli etc. Anche con loro possiamo aver vissuto esperienze importanti e come tali essere diventate parte del nostro modo di essere. Ecco che allora il Genitore Interno diventa quell’archivio di memorie che contiene tutti gli insegnamenti acquisiti nel corso della nostra infanzia, adolescenza, giovinezza e così via. Diventa quella particolare area della nostra conoscenza dove si colloca la nostra dimensione etica, diventa l’archivio dove sono contenute le nostre credenze, i nostri valori, il nostro senso di ciò che è giusto e di ciò che non lo è, di ciò che per noi è morale e ciò che invece non lo è, diventa l’area di espressione del prendersi cura, di noi e degli altri, perché l’elemento chiave dell’essere genitore è proprio la capacità di prendersi cura.

C’è infine un’altra dimensione, sostiene Berne, che completa la nostra personalità che lui chiama Stato dell’Io Adulto. Lui sostiene che c’è una dimensione che ognuno di noi ha e che è visibile anche nei bambini, che si manifesta quando si entra in relazione con la realtà nel qui ed ora. È la dimensione dell’osservatore, che osserva, valuta, pondera, sceglie, confronta, decide, in relazione a ciò che sta accadendo proprio ora, nel presente. Questa dimensione è fonte di esperienze importanti perché si entra in contatto con il mondo, dove la realtà viene vista, osservata, analizzata e diventa fonte di apprendimenti importanti per come ci si muove nel mondo. Detto in altre parole, l’Adulto è quel contenitore in cui sono archiviate le nostre competenze, la nostra capacità di fare e di agire nella realtà.

Ecco allora che nella prospettiva berniana, gli Stati dell’Io, che vanno a comporre e a definire la nostra identità, la nostra personalità, sono degli archivi di memorie in cui sono condensate le esperienze vissute e gli apprendimenti acquisiti che danno vita a costrutti mentali, che producono schemi operativi con i loro connotati di pensieri, comportamenti ed emozioni.

Sono, per usare un linguaggio moderno, dei data-base in cui sono custoditi i software che abbiamo costruito nel corso della nostra esistenza e che nell’insieme costituiscono il nostro sistema operativo con cui entriamo in relazione con il mondo.

Detto in parole semplici, il Bambino Interiore è, come si diceva, la nostra dimensione più vitale perché esprime il nostro mondo emotivo (Pathos) e sappiamo che le emozioni sono energia, energia vitale in movimento, l’Adulto è il nostro elaboratore interno di dati, è il nostro archivio di competenze, la nostra “cassetta degli attrezzi” che usiamo per muoverci nel mondo (Tecnos) e il Genitore Interno, è la nostra guida morale che ci dà una direzione (Ethos) aiutandoci a discriminare ciò che è giusto per noi e per gli altri e ciò che non lo è, mettendoci nella condizione di orientarci nel mondo facendo delle scelte.

C’è infine un’altra nota teorica che Berne ci propone e che riprenderemo quando parleremo di adolescenza. Lui sostiene che l’energia vitale che ci anima, quando si esprime nella dimensione psichica si caratterizza secondo due modalità: una energia fissa o legata e una mobile.

L’energia fissa serve a mantenere vive le memorie negli Stati dell’Io, mentre quella mobile, spostandosi, permette di investire energeticamente uno Stato dell’Io, piuttosto che un altro, che diventa a quel punto la sede di quello che lui chiama il Sé Esecutivo, cioè quella parte di noi che agisce nella realtà in un dato momento. Secondo Berne l’energia mobile può essere slegata o libera, quella slegata è quella quota di energia che investe e attiva uno Stato dell’Io (Sé Esecutivo) sulla scia degli eventi che ci troviamo ad affrontare nel corso della giornata, quella libera invece è quella quota di energia che scegliamo di spostare investendo quello specifico Stato dell’Io.

Giusto per fare qualche esempio, quando ci divertiamo o stiamo facendo qualcosa di divertente, o di creativo, sia che siamo soli o in compagnia, stiamo spostando energia nel nostro Bambino Interiore che diventa protagonista di quei comportamenti, quando invece ci concentriamo su un compito o su una situazione complessa e cerchiamo di capire come muoverci soppesando le varie ipotesi, stiamo investendo energia e quindi attivando il nostro Adulto, che attinge alle competenze acquisite per affrontare la complessità, quando invece ci prendiamo cura di qualcuno o anche di noi stessi, oppure ci confrontiamo con scelte che hanno a che fare con la salute o l’educazione dei figli o se facciamo un lavoro di aiuto nei confronti degli altri, scegliamo di investire energia nel nostro Genitore Interno che diventa protagonista delle scelte che faremo.

Va sottolineato che questi tre Stati dell’Io non sono realtà separate, sono semplicemente tre diverse modalità di essere, riconducibili all’organizzazione delle esperienze fatte nel corso dello sviluppo psicologico, all’interno di una percezione di Sé che rimane unitaria. L’attivazione di uno Stato dell’Io rispetto ad un altro è strettamente connaturata all’esperienza che si sta facendo nel presente e può cambiare velocemente a seconda degli stimoli che le varie situazioni ci inviano.

 

Adolescenza e Stati dell’Io

Sul tema dell’adolescenza siamo tornati più volte nel corso dei nostri articoli. Qui vale la pena ricordare che concordiamo con Erik Erikson (che va ricordato è stato uno dei due analisti di Berne, l’altro è stato Paul Federn, esponente di quella corrente psicoanalitica nota come Psicologia dell’Io) nel dire che il tema principale di questa fase di vita è la confusione di identità. L’adolescenza è un periodo delicato perché in questo tempo assistiamo ad una metamorfosi, ad una trasformazione dell’individuo, quella che va in crisi durante il periodo che va all’incirca dai 13/14 ai 23/24 anni, è l’identità acquisita negli anni precedenti, quelli dell’infanzia. Abbiamo già avuto modo di sottolineare che sulla base di una programmazione genetica si innescano dei processi in quel tempo chiamato Adolescenza, che vanno a destrutturare l’identità acquisita (ecco la confusione di identità di Erikson) spingendo l’individuo verso una ricerca, per lo più inconsapevole, che lo porterà nel corso di quel decennio ad acquisire una nuova identità. 

Perché programmazione genetica? Perché è il corpo che innesca il processo. E’ noto che nel corso di questo tempo il corpo cambia: le ossa si allungano, assistiamo ad un ispessimento della massa muscolare, si verifica una attivazione ormonale che innesca la comparsa dei tratti sessuali secondari, si realizza la maturazione di una funzionalità genitale che prima non c’era e che rende l’individuo procreativo con tutto quello che ne consegue sul piano della percezione di sé e degli altri.

A livello cerebrale assistiamo ad un aumento prima, con successivo sfoltimento poi (pruning), della produzione di cellule nervose in alcune aree del cervello (neurogenesi) e assistiamo ad un aumento delle connessioni sinaptiche (sinaptogenesi) funzionale a completare il quadro di interscambio fra i vari sistemi neurobiologici e strutture cerebrali, evidenziando una notevole ripercussione sulla funzionalità cognitiva dell’individuo e sulla sua capacità di elaborare informazioni. E’ noto che anche sul piano emotivo si assiste ad un aumento della sensibilità emotiva (dovuta all’iperattività del sistema limbico), nel senso che le emozioni si fanno più intense e quindi più difficili da gestire, creando quel senso di improvvisa incertezza rispetto a quello che si prova e perché lo si prova. Tutto questo quadro di variabilità sul piano somatico si riflette in altrettanta instabilità sul piano psicologico. L’adolescente sente che cambia tutto: cambiano i pensieri, il suo modo di sentire, cambiano le relazione, cambiano gli interessi, cambia il modo di percepire i genitori e di conseguenza il rapporto con loro, mentre si accentuano gli interessi nei confronti dei coetanei. In altre parole l’adolescente non sa più bene chi è. Quando si parla di disagio in adolescenza si intende proprio questo, la difficoltà a riconoscersi.

Come sostiene Erikson, la crisi di identità, la confusione di identità, può rappresentare per l’individuo un momento di stagnazione e quindi conflitto con possibile regressione oppure un momento di evoluzione personale con conseguente sviluppo e integrazione. E’ infatti la condizione di disagio che spinge, motiva, l’adolescente ad iniziare una sua ricerca e quindi a sviluppare un suo interesse per la sperimentazione. Solo muovendosi nel mondo, misurandosi con la realtà, mettendosi alla prova potrà capire o scoprire chi è veramente. E’ quel processo che in psicologia, viene chiamato ricerca di individuazione, che porterà il soggetto, anche in relazione alle esperienze che farà, a ritrovarsi nell’arco di una decina d’anni circa, una persona diversa seppur nella continuità dei ricordi, una persona più definita, con una maggiore conoscenza di sé, più consapevole di sé e del suo relazionarsi con gli altri, anche l’emotività gli sembrerà maggiormente sotto controllo e gli saranno più chiari i sentimenti che nutre per gli altri. Avrà sviluppato nel frattempo un bagaglio di competenze in parte conseguenti agli studi scelti o alle esperienze di lavoro fatte, che gli daranno maggiore sicurezza, si ritroverà inoltre ad avere elaborato una scala di valori più definita che gli darà il senso più preciso di ciò che sente per sé essere giusto o meno, essere buono o cattivo, si ritroverà quindi ad aver ridefinito il proprio personale senso etico-morale. E’ pronto a questo punto per avventurarsi nella società degli adulti, ad entrare, a far parte di una famiglia più estesa di quella d’origine, che si identifica con la società in cui è cresciuto e vive.

Perché tutto questo diventi possibile è necessaria una separazione, un distacco dai propri genitori, uno svincolo da quel mondo che per lui ha rappresentato e rappresenta il sentirsi a casa, il sentirsi al sicuro, il sentirsi di avere una identità. Questo aspetto di conflittualità con i genitori, ma più in generale col mondo degli adulti (v. ad esempio nel mondo della scuola anche con gli insegnanti) è uno degli aspetti più tipici e risaputi dell’adolescenza, l’adolescente ha bisogno di staccarsi dai suoi genitori e da quello che loro rappresentano, la base sicura, il porto sicuro, perché solo così può darsi il permesso di avventurarsi in mare aperto e cominciare a navigare da solo alla ricerca di quella terra inesplorata che corrisponde a “quell’Isola che non c’è”, cioè a quella identità non ancora trovata. Solo  separandosi e differenziandosi può iniziare quel viaggio di conoscenza per capire e scoprire chi è per davvero. L’unica compagnia ammissibile, anzi ricercata, che fa da contraltare al senso diffuso di insicurezza e instabilità è la compagnia dei coetanei con cui ha la possibilità di rispecchiarsi, di identificarsi, di ri-conoscersi. Tutti questi aspetti sono comuni ad ogni adolescente in forma più o meno accentuata, in alcuni ragazzi questi processi si sviluppano prima in altri dopo, quello che però è rilevante è che prima o poi la metamorfosi riguarderà tutti.

Come possiamo leggere tutto questo in termini di Stati dell’Io? Quando parliamo di confusione o crisi di identità, quali Stati dell’Io vengono coinvolti?

Cominciamo col dire che Berne non si è occupato specificamente di adolescenza, in quanto il suo intento prioritario era quello di proporre una psicologia delle relazioni umane e una psicologia dell’Io, che avessero un linguaggio nuovo, semplice, alla portata dell’uomo comune, ma che facesse anche tesoro di tutto ciò che la psicoanalisi aveva proposto, includendovi però anche elementi che i nuovi orientamenti stavano proponendo nel mondo della psicologia e della psicoterapia proprio in quel periodo.

Quando parliamo di strutturazione della personalità nel corso dell’infanzia (prima o seconda che sia) o comunque di quel periodo che precede l’adolescenza, parliamo di interiorizzazioni (apprendimenti acquisiti) che vanno a strutturare e definire la relazione col mondo, inteso prevalentemente come rappresentato dagli altri e dalle relazioni con loro. In questo senso è, a nostro avviso, il Genitore Interno l’elemento chiave, perché le interiorizzazioni predominanti sono quelle che fanno riferimento agli Altri significativi, che hanno avuto un ruolo importante per noi, in primo luogo i genitori, ma anche altri adulti significativi sia dell’ambiente familiare che esterno ad esso. I bambini “assorbono” ciò che vivono e quello che vivono è prevalentemente in relazione con qualcuno che si prende cura di loro o che si interfaccia con loro in termini di attività, e pertanto assorbono e imparano modi di essere, di pensare, di agire, propri dei loro interlocutori. La crisi adolescenziale caratterizzata dal processo di separazione dai genitori e l’inizio della ricerca di individuazione, si innesca sostanziale attraverso un “depotenziamento” del Genitore Interno e un conseguente investimento energetico sul Bambino Interiore. L’Adolescenza intesa come periodo caratterizzato da curiosità, ribellione, sperimentazioni, desiderio, ricerca del nuovo, moltiplicazione degli interessi, è l’età in cui il Sé Esecutivo si sposta prevalentemente nel Bambino Interiore, che prende il “comando” nella guida della vita dell’adolescente.

Va inoltre sottolineato che il Bambino Interiore, secondo Berne,  si muove sulla spinta del principio di piacere di freudiana memoria, per cui è possibile pensare che l’egocentrismo, la dimensione narcisistica e l’espressione di onnipotenza tipica degli adolescenti sia in relazione all’investimento energetico che coinvolge questo Stato dell’Io, in questo periodo della vita. Perché tutto questo accada, cioè dare spazio alla ricerca del nuovo, è necessario ridurre “la forza” del Genitore Interno, che nella dinamica interna, intrapsichica, svolge nella prospettiva berniana, un’azione di controllo, di guida e protezione. Se osserviamo la pratica educativa sia che veda coinvolti i genitori nei confronti dei figli, sia che la osserviamo in ambito scolare tra insegnante e alunni, vediamo che al di là dei contenuti trasmessi sul piano del processo relazionale quello che passa è la definizione di un limite oppure la concessione di un permesso (v. articolo Limiti e Permessi).

Possiamo ricondurre, se vogliamo in modo magari semplicistico ma sicuramente efficace, tutta la pratica educativa nella continua definizione e ridefinizione dei SI e dei NO. Giusto per fare un esempio. Quando si vieta ad un bambino di fare una cosa, gli si pone un limite, quando invece lo si lascia fare, gli si dà un permesso. Possiamo quindi immaginare che quando parliamo di identità acquisita durante l’infanzia, troviamo sicuramente le esperienze emotive e i relativi significati interiorizzati (Bambino), le abilità progressivamente acquisite che tendono ad esprimere una relativa autonomia (Adulto), ma soprattutto troviamo le interiorizzazioni delle esperienze fatte con i genitori, i familiari e altre figure significative che si attualizzano in un sistema di convinzioni strutturato intorno ai SI e i NO ricevuti e fatti propri (Genitore).

E’ proprio il sistema dei SI e dei NO ricevuti e interiorizzati (sistema di valori) che abbiamo costruito nel tempo che ci permette sia durante la condizione infantile che dopo, di operare scelte su ciò che è giusto o su ciò che è sbagliato, su ciò che fa bene e ciò che fa male, indipendentemente che ci sia la voce di mamma o papà a dircelo o a ricordarcelo, perché quella voce si è interiorizzata. Siamo noi che riproduciamo l’opinione, gli insegnamenti, le convinzioni dei nostri genitori e questo ci dà identità, in quanto sappiamo cosa fare, cosa dire, come muoverci, al di là della loro presenza. E’ quello che Berne chiama dialogo interno, quella sorta di conversazione mentale di cui ognuno ha fatto esperienza e che, se si va ad analizzare in termini di Stati dell’Io, riconosciamo per lo più come dialogo fra il nostro Genitore Interno e il nostro Bambino Interiore. Il dialogo interno tende a  riprodurre la dinamica esterna precedentemente vissuta e interiorizzata, per cui quando ognuno di noi accetta di soddisfare un proprio desiderio, nella prospettiva berniana, potremmo dire che il nostro Bambino Interno ha ricevuto il permesso di farlo dal nostro Genitore Interno (ha ricevuto un SI), quando invece di fronte ad un desiderio, che per vari motivi riteniamo non opportuno o non conveniente assecondare, possiamo dire che il nostro Genitore Interno ha posto un limite (ha detto un NO).

E’ il sistema dei SI e dei NO che viene messo in discussione in adolescenza, cioè il sistema di valori acquisito. Il conflitto che notoriamente viene vissuto dall’adolescente nei confronti dei propri genitori e più in generale nei confronti del mondo degli adulti, non è altro che l’esternalizzazione del conflitto vissuto interiormente tra i contenuti del proprio Genitore Interno che non soddisfano più le esigenze e le necessità del proprio Bambino Interiore. Siccome genitori reali sono lo specchio delle interiorizzazioni acquisite durante l’infanzia perché sono costruite “a loro immagine e somiglianza” è evidente che loro diventano il bersaglio della ribellione. Il conflitto però non è solo esterno ma soprattutto interno e per risolverlo l’adolescente ha due possibilità entrambe provvisorie: rafforzare energeticamente il Genitore in modo da dargli la forza di contrastare la forza del desiderio che emerge nel Bambino Interiore, oppure depotenziare i contenuti, riducendo gli investimenti energetici, nel suo Genitore Interno per spostare energia psichica sul Bambino Interiore che diventa il protagonista della sua ricerca di identità. E’ probabile che l’Adolescente durante il tempo della sua adolescenza, per ridurre la conflittualità interna (e di conseguenza  esterna), operi agendo su entrambe le strategie, ma è anche vero che in termine evolutivi quello che o prima o poi accadrà (e deve accadere) sarà il depotenziamento del Genitore Interno e lo spostamento energetico sul Bambino Interiore, dando spazio di conseguenza alla forza del desiderio con tutto quello che ne consegue in termini di curiosità ed esigenze.

Anche in questa dialettica concordiamo col pensiero di Erik Erikson. In questa fase il rafforzamento del Genitore Interno rientrerebbe in quella che Erikson chiama stagnazione e regressione, cioè una strategia che riduce la conflittualità interna perché, come è stato fino all’adolescenza ognuno di noi si allinea e tendenzialmente aderisce al sistema di convinzioni proprio dei genitori, ma non sarebbe  una scelta evolutiva in quanto la ricerca di identità innescata dal tempo dell’adolescenza, prevede proprio una riduzione dell’influenza genitoriale per dare spazio ad una sperimentazione funzionale alla ricerca di identità. In quel decennio che definisce il tempo dell’adolescenza, sarà proprio la sperimentazione posta in atto, le esperienze fatte, gli apprendimenti acquisiti, che andranno ad arricchire il Genitore Interno di nuovi contenuti, ed è proprio la ridefinizione dei suoi contenuti che avrà un peso rilevante nella nuova identità.

Quando il nostro Adolescente si ritroverà ad avere 23/25 anni, come abbiamo già detto, si ritroverà ad avere una maggiore stabilità emotiva, un bagaglio di competenze maggiori, si ritroverà anche ad avere un suo sistema etico-morale, cioè un Genitore Interno riorganizzato, in cui ci saranno contenuti che apparterranno agli insegnamenti ricevuti dai propri genitori o da altri adulti significativi e nuovi contenuti che saranno conseguenza delle esperienze fatte nel corso dell’adolescenza e che hanno introdotto nuovi significati e nuovi principi.

Si sentirà più capace di discernere avendo costruito una propria visione e poco importa a quel punto che sia ora in toto o in parte quella dei suoi genitori perché sentirà adesso di averla scelta e non subita.

Un altro aspetto di questa dinamica interna propria dell’adolescenza è l’aumento dei comportamenti a rischio, in quanto si riduce la capacità di controllo, di protezione, di sorveglianza propria del Genitore Interno a favore di un aumento del desiderio che diventa il protagonista delle scelte comportamentali del Bambino Interiore. Diciamo che si  riducono i limiti interni (i NO) a favore dei permessi interni (i SI). Che in adolescenza aumentino i comportamenti a rischio è cosa nota, anzi possiamo dire che buona parte della produzione letteraria in ambito psicologico si occupa di questo, come del resto la quasi totalità degli interventi di psicologia clinica in adolescenza riguardano i comportamenti a rischio e le possibili loro conseguenze. Pensiamo alle gravidanze indesiderate legate alla sperimentazione sessuale, come anche all’aumento delle malattie sessualmente trasmissibili di cui hanno ripreso a parlarci i media, pensiamo al consumo di droghe, pensiamo ai comportamenti estremi in cui l’estremizzazione del rischio è fonte di adrenalinico piacere e così via.

La questione che ci poniamo adesso è questa: se è in qualche modo inevitabile che l’Adolescente prenda le distanze dai propri genitori (sia interni che esterni) per favorire la propria emancipazione e individuazione e per far questo debba disinvestire o depotenziare il proprio Genitore Interno per lasciare spazio alle istanze desideranti del Bambino Interiore, questo processo avviene per tutti gli adolescenti  in uguale misura, o ci sono delle differenziazioni e cosa può eventualmente fare la differenza? Anche rispetto al rischio, se è vero che tutti gli adolescenti tendenzialmente accettano una quota maggiore di rischio in qualche modo collegata al loro bisogno di sperimentare, possiamo dire rischiano tutti allo stesso modo o si può intravvedere una differenza sulla disponibilità a rischiare? Se c’è una differenza rispetto alla propensione o esposizione al rischio a cosa è dovuta?

 

Adolescenti difficili

Alcuni anni fa l’Istituto Minotauro di Milano, che si occupa da tempo di psicologia dell’adolescenza, ha fatto un lavoro con alcuni gruppi di studenti delle superiori dell’interland milanese. Tale lavoro è stato illustrato da Gustavo Pietropolli Charmet durante un seminario formativo. L’idea era di sondare il tema del consumo di droghe fra adolescenti, la metodologia scelta si basava sui focus-group e la prospettiva era di selezionare studenti che non avevano mai provato nessuna droga. L’obiettivo era capire perché non lo avessero fatto, nonostante sia risaputo che il consumo soprattutto di cannabis sia alquanto diffuso fra studenti delle superiori, infatti le indagini che periodicamente vengono fatte a livello nazionale,  stimano che il 20-25% degli studenti di età compresa fra i 15-19 anni abbiano usato cannabis nel corso dell’anno considerato dall’indagine. L’esito del lavoro riassunto da Pietropolli Charmet è stato questo: gli adolescenti coinvolti sostenevano di non aver provato la droga, non tanto perché fossero convinti che facesse male farlo e nemmeno perché non avessero la curiosità o il desiderio di farlo, non lo avevano fatto perché considerando la possibilità di farlo gli si rappresentava nella loro mente l’espressione di disapprovazione e di delusione dipinta nel volto di mamma e papà e questo li bloccava. 

Quanto riferito ci sembra un buon punto di partenza per cercare di rispondere alle domande che ci siamo posti. Questi ragazzi che vivendo nel mondo della scuola si sa, vedono, sentono, interagiscono con i coetanei e quindi sanno chi usa e chi non usa, chi ha provato e chi no, trovavano un limite alla loro curiosità e al loro desiderio di sperimentare o fare quello che facevano gli altri, magari i loro stessi amici, solo pensando di poter deludere i loro genitori. Si può pensare che avrebbero potuto farlo e non dirlo o fare in modo che i genitori non venissero a saperlo, tanto “si sa” che i genitori sono sempre gli ultimi a venire a sapere le cose, per cui la questione non era tanto quella di eludere o ingannare i genitori perché questo volendo lo si poteva fare. La vera questione è che non si può eludere o ingannare il  proprio Genitore Interno ed è lì che si colloca il senso del limite (i NO interni) o del possibile permesso (i SI interni). Detto in altre parole, riprendendo la dinamica intrapsichica adolescenziale descritta precedentemente, il Genitore Interno subisce un depotenziamento a favore di un potenziamento delle istanze desideranti del Bambino Interiore, ma questo non significa che sia privo di forza, non viene completamente disattivato, anzi.

Ma da cosa deriva la forza del Genitore Interno? Perché in alcuni adolescenti questa dimensione genitoriale è più forte e in altri più debole? La risposta va cercata nel tipo di relazione che c’è stata nel corso del tempo fra quei genitori e quel figlio/a. Gli studi fatti in merito alle relazioni familiari confermati anche dall’esperienza clinica, sostengono l’idea che più la relazione fra genitori e figli è stata positiva nel corso dell’infanzia (diciamo nei primi 10 anni di vita) e più organizzati e strutturati saranno i contenuti interiorizzati che vanno a “riempire” quei contenitori di esperienze, quegli archivi di memorie che sono gli Stati dell’IO.

In particolare è il Genitore Interno che “assorbe” prevalentemente i contenuti e le modalità della relazione genitoriale, ma ricordiamoci che anche gli altri Stati dell’Io saranno influenzati da tale relazione, per cui troveremo contenuti interiorizzati sia nell’Adulto (acquisizione di competenze) che nel Bambino Interiore (attaccamento emotivo e fiducia di base). Queste osservazioni si intersecano, trovandone conferma, con le indicazioni espresse alla fine degli anni Novanta e fatte proprie dall’O.M.S. riassunte nella cosiddetta Teoria dei fattori di rischio e dei fattori protettivi proposta e avvalorata da numerosi studi e ricerche fatte nell’ambito del disagio psichico, della devianza giovanile e del consumo di droghe. Questa teoria, fornisce da un lato un elenco di condizioni individuali, familiari e socio-culturali che possono portare bambini e ragazzi a comportamenti  devianti in adolescenza (fattori di rischio) e dall’altro un elenco di condizioni anche in questo caso individuali, familiari e socio-culturali, che possono invece proteggere bambini e ragazzi dallo sviluppo di forme di disagio e devianza nel corso della loro crescita (fattori protettivi).

In breve, le condizioni che vengono indicate come protettive in ambito familiare riguardano quelle relazioni fra genitori e figli che sono caratterizzate da un buon attaccamento reciproco, con un forte legame di appartenenza familiare, un buon livello di scambio affettivo, una buona empatia relazionale che favorisca una vicinanza emotiva che permetta di sentirsi accettati e compresi trasmettendo la percezione di un buon sostegno emozionale, una  presenza costante e solida durante tutta l’età evolutiva, il che significa una buona supervisione rispetto all’andamento scolastico, le attività extrascolastiche e relazionali dei figli e infine uno stile educativo improntato sull’incoraggiamento, l’ascolto, l’esempio, la responsabilizzazione, il coinvolgimento.

Visto che gli Stati dell’Io sono archivi di esperienze, esperienze che si trasformano come suggeriva Piaget, in apprendimenti, è chiaro che l’interiorizzazione di esperienze relazionali positive vissute con i propri genitori costruiscono nel tempo un Genitore Interno solido, strutturato, con contenuti chiari (valori, regole, norme, limiti, significati etc.). Questa è la forza del Genitore Interno, che funziona da guida anche quando i genitori reali non sono presenti. Se durante l’adolescenza la sua forza inevitabilmente si indebolirà per lasciare spazio ai desideri del Bambino Interiore, sarà comunque presente e vigile e saprà porre i propri limiti quando il desiderio spinge l’adolescente verso esperienze valutate come eccessive dal punto di vista dei rischi. E’ molto probabile che gli studenti partecipanti ai focus-group narrati da Pietropolli Charmet appartenessero a questa tipologia di adolescenti, ragazzi con alle spalle una esperienza familiare solida e positiva che ha permesso loro di interiorizzare e strutturare un Genitore Interno sufficientemente forte da essere per loro protettivo nella travagliata esperienza adolescenziale. Il fatto che provassero un senso di disagio (o di colpa) all’idea di deludere i loro genitori significa che per loro, l’opinione dei genitori era importante e questo lascia immaginare che avessero dei loro genitori una idea probabilmente connotata da un sentimento di ammirazione, riconoscenza e stima.

E gli Adolescenti difficili?

Chi li ha conosciuti sa che vengono da storie familiari complesse che hanno di conseguenza influito sulla loro crescita ed evoluzione esistenziale. In queste storie ritroviamo praticamente tutti i fattori di rischio in ambito familiare segnalati dalla teoria a cui si faceva riferimento.

Colpisce che spesso questi ragazzi siano cresciuti senza un genitore, o perché nati da una relazione occasionale, o perché i genitori si sono separati quando i figli erano ancora piccoli, o perché c’è stato un decesso. La figura mancante in queste storie è quasi sempre il padre e questo di conseguenza comporta un forte coinvolgimento della madre nella relazione con il figlio/a che solitamente aumenta la difficoltà di svincolo in età adolescenziale. Dove invece la coppia genitoriale è presente, si osserva spesso una situazione di alta conflittualità fra i coniugi, che rende l’ambiente familiare spesso caotico, fatto di regole poco chiare e da una comunicazione ambivalente se non decisamente contraddittoria, con uno stile educativo inadeguato, spesso caratterizzato da un  atteggiamento o troppo permissivo o al contrario troppo rigido o autoritario. Non sono rare inoltre situazioni in cui emergono disturbi psichici nei genitori, in cui si riscontrano situazioni presenti o passate di alcolismo o di tossicodipendenza o disturbi mentali con pregressi ricoveri. In questo senso piuttosto ricorrente è la presenza di una madre depressa con scarso attaccamento affettivo. Diciamo che questi adolescenti sono cresciuti in una ambiente familiare connotato spesso dalla carenza. Carenza reale di un genitore, carenza di attenzioni, carenza di attaccamento, carenza di vicinanza emotiva, carenza di insegnamenti o di dialogo, che hanno portato alla costruzione di legami familiari deboli o labili. Se la letteratura ci descrive questi scenari e l’esperienza clinica la conferma, che tipo di interiorizzazioni sono stati possibili  nel corso della crescita? Sappiamo che i bambini assorbono ciò che vivono e quindi è molto probabile che il Genitore Interno di questi ragazzi si sia organizzato interiorizzando le relazioni familiari per come sono state vissute, cioè connotate da carenze e debolezze.

Quando arriva l’adolescenza questi ragazzi si trovano ad avere un Genitore Interno scarsamente strutturato, debole e carente, che verrà ulteriormente indebolito dalla fase adolescenziale dando spazio ad un Bambino Interiore in cui la forza del desiderio non troverà particolari limiti od ostacoli alla sua espressione. Se poi, come spesso accade, questi ragazzi incontrano le droghe che sappiamo vanno a rinforzare ulteriormente la dimensione narcisistica riducendo i limiti interni, ci troveremo di fronte ad adolescenti dove l’onnipotenza narcisistica (realizzabilità del desiderio) è massima e questo li espone ovviamente a rischi notevoli di incidentalità, di dipendenze, di antisocialità, di violenza auto e etero diretta etc.

 

Genitore Sociale e adattamento

Abbiamo iniziato questo articolo dicendo che l’adolescenza è una fase della vita sicuramente instabile e confusa per tutti, ma pericolosa e rischiosa per alcuni, quelli che abbiamo chiamato Adolescenti difficili. Abbiamo già sottolineato detto che gli Adolescenti difficili di oggi non erano ragazzi e bambini invisibili ieri, le loro difficoltà erano già state notate.

Si possono dare molti significati al processo educativo a seconda della prospettiva con cui lo si guarda e uno dei punti di vista è che la cura della prole serve a preparare individui capaci di inserirsi nel contesto culturale della società di appartenenza. Da questa prospettiva, i genitori sono i primi attori di un processo di apprendimento/adattamento che porta alla condivisione/interiorizzazione di quei valori e di quelle norme che sono alla base della convivenza in una determinata società. Se questo tipo di apprendimento si realizza avremo nel corso del tempo la formazione di individui che sapranno inserirsi nella società di appartenenza con buone capacità di adattamento, capacità che gli permetteranno di trovare la propria modalità di realizzazione all’interno delle varie “strade” previste dalla società in cui sono cresciuti e vivranno. Anche la scuola gioca un ruolo importante in questo processo di apprendimento/adattamento, tanto è vero che famiglia e scuola sono ritenute nel nostro contesto sociale le due principali agenzie formative.

Ma cosa succede quando questo processo educativo/formativo non realizza la propria mission come nel caso degli Adolescenti difficili che obiettivamente esprimono varie difficoltà di adattamento e di interiorizzazione della norma per cui, prima che la diagnostica prendesse il sopravvento con l’ampia variabilità di diagnosi che vengono utilizzate per definirli, si parlava di loro in termini soprattutto di dis-adattamento o devianza?

Quando questo processo non si realizza in ambito familiare o si realizza in maniera limitata, solitamente è la scuola ad intervenire perché le difficoltà di inserimento e adattamento al contesto scolastico diventano visibili fin dall’inizio del percorso formativo.

Partendo dal presupposto che tutti i genitori amano, a loro modo i figli e fanno quello che possono per educarli nel migliore dei modi, va anche detto che al di là delle intenzioni, i genitori di quelli che abbiamo definito come Adolescenti difficili non si sono dimostrati in grado, per vari motivi, di svolgere positivamente il loro ruolo.

Negli anni Novanta all’interno del pensiero sistemico-relazionale applicato allo studio delle famiglie problematiche, si è sviluppata la cosiddetta teoria trigenerazionale del disagio psichico. Cosa significa? Che nella prospettiva sistemica, il paziente designato, nel nostro caso l’Adolescente problematico, è l’anello terminale di una catena che coinvolge almeno tre generazioni nella trasmissione della carenza. Detto in altre parole, i genitori di quello che diverrà l’Adolescente difficile, avevano avuto a loro volta un rapporto difficile con i rispettivi genitori, per cui, andando a ricostruire la storia delle relazioni familiari, si coglie spesso che la loro uscita dalla famiglia d’origine assumeva più il sapore di una fuga in avanti, che di una separazione consenziente legata ad un salto evolutivo proiettato verso la dimensione adulta. In questo svincolo forzato si portano appresso nel loro bagaglio esistenziale (i famosi apprendimenti di Piaget) tutte le difficoltà irrisolte, la carenza vissute, le insoddisfazioni accumulate che li rendono estremamente fragili nello svolgere poi la funzione genitoriale. Sono, come qualcuno li ha definiti, dei “bambini mai cresciuti” giusto per sottolineare la difficoltà a calarsi in un ruolo adulto che permetta loro di  occuparsi adeguatamente dei propri figli. Non hanno avuto modelli di riferimento genitoriale positivi da cui poter sperimentare e apprendere il prendersi cura, che è l’essenza della funzione genitoriale.

La scuola e l’inserimento scolastico diventano a questo punto l’altra occasione importante per colmare questa carenza di genitorizzazione, come direbbe Berne e solitamente la scuola cogliendo le difficoltà si attiva cercando di mettere in atto dei correttivi attraverso maggiori investimenti educativi, soprattutto nel corso del ciclo scolastico obbligatorio. Alle superiori, dove forse l’aspetto specificatamente educativo passa in secondo piano rispetto a quello professionale, questi ragazzi solitamente sono destinati all’espulsione perché non sono in grado di “tenere il passo”. Se nel corso del ciclo scolastico obbligatorio, per l’attenzione posta, per gli interventi educativi messi in atto, per i percorsi individualizzati studiati ad hoc, per molti di questi ragazzi il raggiungimento della qualifica di terza media è realizzabile, alle superiori si evidenziano tutte le difficoltà di adattamento/apprendimento. Chi lavora con questi adolescenti sa che spesso si incontrano ragazzi che hanno ripetuto la prima superiore in tre o anche quattro scuole differenti prima di abbandonare definitivamente la scuola. Del resto è risaputo che il livello di dispersione scolastica in Italia è fra i più alti al mondo e lo spartiacque di solito è il biennio delle superiori dove si registra il più alto livello di abbandono.

Quando anche in ambito scolastico, pur mettendo in campo attenzioni e accorgimenti educativi, la possibilità di un recupero della capacità di adattamento sociale rimane carente, solitamente entrano in campo altre agenzie, partono le segnalazioni, gli invii, entrano in gioco i Servizi Sociali per la tutela dei minori, i Servizi per l’età Evolutiva, i Centri diurni, le Comunità educative, entra in campo il Tribunale dei minori, con le sue decretazioni etc.

Quello che vogliamo mettere in evidenza è che la società, la quale ha tutto l’interesse perché i suoi piccoli cittadini crescano con una buona interiorizzazione delle norme che la governano, in modo da favorire l’appartenenza a questa famiglia allargata, mette in campo delle risorse, quando la mission genitoriale fallisce proponendo dei sostituti genitoriali. Tutti i servizi che entrano in gioco nel tempo prendendosi cura prima dei bambini difficili, poi dei ragazzi difficili e infine degli adolescenti difficili svolgono un ruolo che potremmo definire di Genitore Sociale. Ognuno di loro entra in campo proponendo, secondo le rispettive competenze, esperienze che dovrebbero dare vita a nuovi apprendimenti che nelle intenzioni andrebbero ad integrare le carenze o supportare le fragilità registrate nel corso delle relazioni familiari primarie, favorendo un arricchimento dei contenuti (e quindi degli apprendimenti) del Genitore Interno di questi ragazzi.

La debolezza attuale del sistema familiare e scolastico si coglie anche dal numero crescente di segnalazioni fatte negli ultimi anni ai Servizi che si occupano di minori e all’aumento esponenziale dei ricorsi al Tribunale dei minori, che sempre più spesso viene chiamato ad assumere il ruolo del Genitore dei genitori, in quanto decide d’autorità, la sospensione o l’affievolimento della patria potestà, l’invio dei ragazzi in strutture comunitarie per minori siano esse educative, riabilitative o terapeutiche, la messa alla prova per monitorare il comportamento e così via.

Lo scopo è evidente ed è sostanzialmente duplice: quello di porre in primo luogo un limite all’espressione di comportamenti devianti e dall’altro proporre esperienze di accudimento genitorializzanti nella speranza di rinnovare o arricchire le interiorizzazioni che dovrebbero nel tempo consolidare un Genitore Interno capace non solo di porre dei limiti al Bambino desiderante, ma anche di essere in grado di costruire istanze di autocontrollo, capacità di indirizzo, scelte non autodistruttive e tollerabili dalla società. Quando anche questo processo di riapprendimento educativo non dovesse per vari motivi funzionare, come non sono funzionati i precedenti dispositivi messi in atto, ecco che il carcere minorile o quello per adulti nel caso del compimento della  maggiore età, diventa l’ultimo dispositivo che la società è in grado di mettere in campo, arrivando a proporre come trasposizone simbolica la più severa delle prescrizioni genitoriale: tu stasera non esci.

  

A conclusione di queste riflessioni sull’Adolescenza e in particolare su quelli che abbiamo definito Adolescenti difficili crediamo di aver reso evidente come non siano casuali certi destini. Diciamo che certe evoluzioni sia in senso positivo (strutturazione della personalità e capacità di adattamento) che negativo (labile o dis-organizzata strutturazione della personalità e dis-adattamento) sono leggibili in modo molto precoce e forse sarebbe più economico e socialmente più vantaggioso investire molto precocemente in modo da fornire un supporto alle giovani famiglie che presentano delle difficoltà, piuttosto che rincorrere il disagio che si manifesta nel tempo, predisponendo interventi educativi correttivi nel corso dell’età evolutiva se non in certi casi per tutta la vita.

Che la nostra società sia politicamente poco lungimirante lo si coglie da molti segnali che coinvolgono il vivere civile, dalle politiche sull’ambiente, a quelle riguardanti l’economia e il lavoro, ma anche dalla poca attenzione allo sviluppo ed educazione del capitale umano inteso come attenzione alla salute fisica e psichica delle generazioni che verranno.

E’ piuttosto significativo come non siano previsti in Italia, Servizi di psicologia e pedagogia scolastica all’interno delle scuole. Ogni Istituto Comprensivo (che accorpa sotto la stessa direzione scolastica più scuole, dalle materne alle medie, per usare una vecchia terminologia) dovrebbe avere la sua equipe psico-pedagogica che supporta le insegnanti sia nella gestione delle classi che dei singoli alunni, ma anche i genitori  per favorire la massima integrazione educativa, in modo da mettere in campo strategie che provino a modificare destini già scritti, che Berne nella sua descrizione dei copioni esistenziali classificherebbe, usando la sua terminologia, come copioni di vita tragici.

 

Pubblicato il 06.04.2019