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Permessi e Limiti

di Doriano Dal Cengio

 

Torniamo a parlare della questione educativa perché è un tema centrale per lo sviluppo, la maturazione e la ricerca di equilibrio in ogni persona. E’ un tema molto sentito soprattutto dai genitori di oggi che sono sempre più attenti ed interessati alle cose da fare e non fare per sentirsi dei buoni genitori o per essere dei genitori efficaci come direbbe Thomas Gordon. Lo vedo negli incontri che faccio periodicamente con genitori, c’è una partecipazione più attenta e numerosa rispetto al passato, una disponibilità maggiore ad intervenire non solo per fare domande, ma per raccontare esperienze e situazioni in modo da creare momenti di confronto. I padri oggi sono numericamente più presenti agli incontri  anche se sono le madri ad intervenire di più. Complessivamente si coglie dagli interventi una maggiore informazione e una più accurata preparazione, segno evidente che i “nuovi genitori” si documentano, leggono, approfondiscono, in altre parole, cercano di prepararsi a rivestire quel ruolo e a fare quel “mestiere” che come è noto nessuno ci insegna.

 

Agio e Disagio

La questione era già stata in parte affrontata nell’articolo Agio e Disagio. La prospettiva scelta era quella della prevenzione del malessere adolescenziale e di conseguenza, delle possibili devianze giovanili che ne potevano conseguire. La convinzione di fondo espressa è che si può prevenire il disagio nelle sue svariate forme favorendo, nel corso delle varie fasi dello sviluppo, situazioni di agio. Più un bambino o un adolescente vive con  soddisfazione e benessere la propria condizione, più la dimensione dell’insoddisfazione e del malessere e quindi della devianza, sarà lontana. La creazione dell’agio personale, dicevamo, passa attraverso la soddisfazione dei bisogni. Siamo convinti che un’adeguata maturazione personale, passi attraverso la costruzione, nel corso dell’infanzia, di una “base sicura”, che è la diretta conseguenza di relazioni di attaccamento soddisfacenti con la madre, che come è noto, riveste soprattutto nei primi anni di vita un ruolo fondamentale, assieme poi ad altre figure importanti per il processo di sviluppo e socializzazione, come il  padre,  i nonni, le maestre prima e gli insegnanti poi. La creazione di una base sicura viene favorita, dicevamo citando Winnicot, da una holding attenta e presente che favorisce la messa in opera dei “primi mattoni” per la costruzione di una solida ed equilibrata struttura della personalità. Avevamo condiviso l’idea che le fondamenta di quella casa dell’Io, che è la personalità, fosse la “fiducia di base” così come ci veniva descritta da Erik Erikson. La costruzione della fiducia di base è la premessa per sviluppare un atteggiamento di apertura e di fiducia da parte del bambino come prerequisito alla possibilità di ricevere ed apprendere. Ci eravamo soffermati poi sul pensiero di Abraham Maslow e di Bob e Mary Goulding, ponendo l’accento sulla soddisfazione dei bisogni.  Ci sono dei bisogni che vengono espressi nel corso dell’infanzia e più in generale, durante tutto il processo di crescita, per poi divenire parte del nostro equilibrio personale, che chiedono di essere soddisfatti. La soddisfazione di questi bisogni crea nell’individuo, sicurezza in quanto creano una base di appagamento emotivo che permette lo sviluppo della fiducia, prima negli altri (la madre sufficientemente buona di Winnicott e la base sicura di Boulby) e  poi attraverso il meccanismo dell’interiorizzazione, in sé stesso.

Su questa premessa andavamo a collocare tutto il discorso sulle Life Skills (abilità sociali), come insieme di competenze che è possibile (anzi opportuno) acquisire nel corso dello sviluppo per meglio fronteggiare situazioni difficili o stressanti. La soddisfazione del bisogno alimenta la dimensione dell’essere, mentre l’acquisizione di competenze alimenta quella del fare. Ovviamente le due cose sono interconnesse in quanto il saper fare nutre la soddisfazione dell’essere e viceversa. Se nell’articolo citato tutto il discorso veniva sviluppato considerando la prospettiva del bambino/a e quindi i suoi bisogni, le sue necessità, le sue esigenze, per crescere sano ed equilibrato, con questo scritto vogliamo invece soffermarci sul ruolo giocato dagli adulti, in particolare dei genitori, perché tutto questo accada.

 

Dalla famiglia etica a quella affettiva

Alcuni anni fa Gustavo Pietropolli Charmet, docente di Psicologia Dinamica all’Università di Milano, e uno fra i più accreditati esperti di problematiche adolescenziali, ha proposto una sua lettura di come è cambiata negli anni la famiglia nella nostra società. Pietropolli Charmet sostiene che negli ultimi trent’anni abbiamo assistito al passaggio da un tipo di famiglia culturalmente deputata a trasmettere valori ad una famiglia, quella attuale, impegnata a condividere affetti.

Quella che lui chiama “famiglia etica” è quel tipo di famiglia che culturalmente è espressione della prima metà del novecento, ma che affonda le sue radici già nell’ottocento. E’ la famiglia patriarcale in cui c’è un capo famiglia, il padre, riconosciuto nel suo potere e accettato nella sua autorità in quanto il ruolo che riveste si colloca in linea con una rappresentazione gerarchica dell’autorità propria dell’organizzazione sociale. C’è il re o il capo dello stato e poi a scendere il prefetto, il questore, il sindaco e quindi il padre che in linea di continuità incarna e rappresenta il principio di autorità all’interno di quella microsocietà che è la famiglia. In questo tipo di modello il potere “legislativo” è in mano al padre, mentre alla madre compete un potere “governativo” nel senso che il suo compito è di trasmettere, ricordare, esercitare la volontà del padre. Si può intravvedere come lo scopo educativo proprio di questa cultura familiare sia quello di trasmettere valori, norme, regole, in modo da formare buoni cittadini.

La famiglia attuale, quella che Pietropolli Charmet chiama “affettiva”, nasce invece dalla rivoluzione culturale del ’68 in cui è proprio il principio di autorità ad essere messo in discussione. La famiglia attuale è caratterizzata dalla cultura delle relazioni e in quanto tale, luogo dove diventa possibile uno scambio affettivo. La famiglia affettiva è figlia del tramonto delle ideologie totalitarie del novecento e dell’affermarsi a vari livelli nella società di una cultura democratica. Nella “democrazia degli affetti”, ogni membro ha diritto di parola e quindi il potere decisionale è diretta conseguenza dell’influenza reciproca e questo rende più indefinito il principio di autorità. La cultura della “nuova” famiglia si caratterizza per la capacità di trasmettere affetto, comprensione, condivisione, dove l’attenzione principale è quella di creare nei confronti dei figli un clima di soddisfazione affettiva attento alla loro felicità e benessere. Infatti lo scopo educativo implicito proprio della famiglia attuale non è tanto quello di trasmettere un’etica per formare buoni cittadini, quanto piuttosto di rendere i figli il più possibilmente felici.

La “democrazia degli affetti” porta inevitabilmente ad una rivisitazione dei ruoli. In modo particolare quello paterno risulta molto diverso. Il padre attuale non incarna più il ruolo del padre autoritario di un tempo, quello che detiene la legge e quindi decide, ma è invece più vicino e accogliente, più disponibile al dialogo e al gioco. Si ritiene che il padre d’oggi abbia assunto in sé molte funzioni un tempo appartenenti al codice materno diventando quello che Pietropolli Charmet definisce un padre “maternizzato”, cioè un padre più affettivo ed empatico, esperto nel sostenere la crescita affettiva e relazionale del figlio e non solo quella etica e normativa. All’interno della nuova famiglia non è cambiato solo il ruolo del padre, ma anche quello della madre che si è gradualmente allontanato dallo stereotipo classico che la voleva passiva e sottomessa, obbediente e dedita al sacrificio, angelo del focolare la cui unica aspirazione doveva realizzarsi nella creazione di una famiglia a  cui dedicarsi totalmente.

Il ruolo della madre oggi risente molto di quella che è stata l’emancipazione culturale della donna dagli anni settanta in poi. La donna è oggi rispetto al passato più disinvolta e impegnata nel campo sociale e lavorativo, tende ad investire maggiormente in attività che vanno al di là della sfera familiare, mutando il modo di essere moglie e madre. Tutto ciò autorizza a parlare di una famiglia molto diversa rispetto al passato, all’interno della quale si può osservare una ridefinizione dei ruoli parentali spesso intercambiabili, dove le funzioni normative ed affettive non sono esercitate così rigidamente come nel passato, aspetto questo che può rendere a volte  ambivalente e contraddittoria la funzione genitoriale. Oltre al ruolo genitoriale è cambiato di conseguenza anche il modo di essere figli. C’è innanzitutto un aspetto sociologico da considerare e che ci porta al fenomeno della riduzione delle nascite, che segna un primo ed evidente passaggio dalla famiglia patriarcale caratterizzata da molte nascite funzionali ad una organizzazione sociale prevalentemente agricola, alla famiglia nucleare attuale con uno o due figli.

Il fatto di fare meno figli porta inevitabilmente ad attaccamenti maggiori. Spesso i figli si trovano al centro di attenzioni e premure che vanno al di là dei genitori coinvolgendo la rete parentale più estesa, dai nonni agli zii, ai pochi cugini.

I figli della famiglia “affettiva” in quanto al centro delle attenzioni genitoriali vengono allevati come “un bene raro e quindi prezioso” e di conseguenza con molta cura e molte attenzioni.  Tendenzialmente, anche in relazione allo status sociale della famiglia, vengono accontentati il più possibile, crescono possiamo dire, con molti permessi e pochi limiti, con molti Si e pochi No. Spesso crescono con l’idea che gli sia dovuto molto e chiesto troppo, vengono nutriti con molto affetto e poche regole e questo secondo autorevoli osservatori fa si che crescano con una scarsa capacità di tollerare la fatica, l’impegno, la noia, la frustrazione, il desiderio. Hanno scarso senso del limite (perché gli viene permesso molto e vietato poco), sono molto sensibili alla dimensione del piacere e insofferenti verso quella del dovere. C’è in sostanza, come dicono gli esperti un prevalere del codice affettivo ed una inevitabile tendenza iperprotettiva della famiglia di oggi (G. Nardone in Modelli di famiglia del 2001).

Il figlio della famiglia affettiva trovandosi al centro degli investimenti parentali può crescere sottoposto a forti condizionamenti o aspettative non solo per quanto riguarda il suo futuro professionale, ma anche per quanto riguarda, ad esempio, la sua pratica sportiva che a volte diventa nell’immaginario genitoriale un’occasione di affermazione personale e di riconoscimento sociale. Questo fa si che si senta investito di attese spesso eccessive, come futuro campione sportivo o genio matematico o informatico, con conseguente difficoltà ad accettare insuccessi o sconfitte che possono preludere, come ben sanno gli psicologi che si occupano di counseling in adolescenza, all’insorgere di crisi depressive, di agiti autolesivi, o al ricorso a sostanze anestetizzanti, insomma all’intero ventaglio delle possibili espressioni del disagio adolescenziale con i suoi risvolti più o meno drammatici.

Da più parti in questi anni psicoanalisti, sociologi, pedagogisti, hanno parlato di una società senza padri, intendendo con questa dizione la mancanza all’interno delle famiglie, ma più in generale della società, di una figura autorevole se non proprio autoritaria, che potesse trasmettere nel processo educativo la norma, il valore della regola e quindi il senso del limite che tutte le regole vanno in qualche modo a definire, compreso il valore dell’obbedienza che, implicitamente, l’accettazione della norma porta con sé.

Se nella famiglia etica, come sostiene Pietropolli Charmet, gli adolescenti per emanciparsi e quindi affrontare adeguatamente la fase di individuazione e svincolo che dovrebbe proiettarli verso una dimensione di maggiore autonomia, dovevano vedersela con un padre ed una madre fermamente ancorati nella salvaguardia di determinati valori che regolavano i comportamenti sociali (sessualità, tempo libero, fidanzamenti etc. in altre parole la definizione degli spazi di potere consentito o appropriabile) i “nuovi adolescenti” invece devono vedersela con una fitta ragnatela di relazioni affettive invischianti e solo blandamente centrate sulla questione dell’autorità e del potere. Questo implica il trovarsi di fronte ad una generazione con problemi legati ad esperienze depressive dovute alla scarsa capacità di coping e ad una diffusa  fragilità narcisistica legata alla scarsa capacità di gestione del dolore.

 

Permessi e Limiti nella pratica educativa

La questione dei permessi e dei limiti è importante nel processo educativo. Se come si è detto il passaggio dalla famiglia etica a quella affettiva ha prodotto una cultura educativa sbilanciata più a favore dei permessi che dei limiti, va anche ribadito che un sano sviluppo della persona richiede una opportuna interiorizzazione di entrambi. L’interiorizzazione dei permessi favorisce la fiducia in sé stessi e quindi l’autostima e la sicurezza personale, mentre  l’interiorizzazione dei limiti favorisce la capacità di adattamento alla realtà e di conseguenza la capacità di muoversi adeguatamente nel mondo. Abbiamo già avuto modo di ribadire nei nostri scritti che lo sviluppo umano procede per fasi. Queste fasi sono caratterizzate dalla progressiva acquisizione di apprendimenti, resi possibili dalla maturazione dei vari sistemi che vanno a comporre la struttura psico-fisica (motorio, percettivo, sensoriale, cognitivo…). L’intero sviluppo umano è caratterizzato dalla acquisizione di informazioni che rielaborate divengono apprendimenti, apprendimenti che producono conoscenza e quindi strumenti che ci permettono di agire nel mondo. Una particolare classe di apprendimenti riguarda proprio la dialettica dei permessi e dei limiti. Tutta la pratica educativa è riconducibile ad azioni di permesso che implicano il SI rispetto a certi comportamenti, oppure a limiti o divieti, che implicano il NO e quindi vanno a limitare certi comportamenti.

L’interiorizzazione dei permessi e dei limiti contribuisce alla definizione dell’etica personale che si struttura nel tempo con l’organizzazione di quello che Eric Berne ha chiamato Stato dell’Io Genitore (Genitore Interno) cioè a quella struttura psichica che diventerà la nostra guida interiore quando ci saremo resi autonomi ed indipendenti dai nostri genitori reali. I contenuti etici, le prescrizioni morali, i valori portanti, ma anche i divieti, le regole e i limiti che vanno a definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male vanno a “riempire” di contenuti il nostro personale Genitore Interno. Questi contenuti passano prevalentemente attraverso la relazione con i nostri genitori reali, di cui interiorizziamo i modi di essere e di pensare, i loro valori e il loro modo di fare. Il Genitore Interno viene nutrito nel corso del tempo non solo dall’interiorizzazione di contenuti presenti nella relazione con i nostri genitori, ma anche dall’incontro con altre figure “genitoriali” che hanno avuto per noi un ruolo importante nel corso della nostra vita, come nel caso di insegnanti, allenatori, istruttori, maestri etc.. Anche l’incontro con uno psicoterapeuta all’interno di un percorso di terapia o analisi personale, diventa occasione per modificare da un lato e arricchire dall’altro il proprio Genitore Interno. All’interno della psicologia transazionale quando si cerca di definire cosa accade nel corso di una psicoterapia, tra i vari processi che si innescano, si parla esplicitamente di un processo di rigenitorizzazione, intendendo appunto la possibilità di modificare alcuni aspetti del proprio Genitore Interno. Questo aspetto diventa importante per il ruolo giocato da questa struttura psichica in quello che viene definito “dialogo interno” che possiamo immaginare come la messa in atto mentalizzata del sistema di permessi e limiti interiorizzato. In altre parole il mettere in atto o meno un’azione implica a monte una valutazione che si esaurisce con un Si o con un No, cioè con un permesso o un limite.

L’importanza degli “altri” significativi, introduce un elemento determinante che riguarda la dimensione relazionale,  perché se la norma o la regola, come del resto un valore o una virtù sono in sè concetti astratti, è dall’incontro con l’altro che diventano reali. E’ dall’incontro fra aspetti di sé e aspetti dell’altro che nasce l’esperienza, la quale rielaborata e interiorizzata produce conoscenza e quindi apprendimento. Questo è un aspetto di particolare importanza, non solo in ambito familiare dove appare per così dire scontato il ruolo di modelli di riferimento giocato dai nostri genitori, ma anche in un contesto come quello scolastico che fonda la propria ragione di essere sugli apprendimenti. L’insegnante non è “solo” un trasmettitore di informazioni disciplinari, ma in quanto educatore è un costruttore di relazioni e di esperienze. Questa ci sembra in sintesi l’arte dell’insegnare, cioè la capacità di costruire relazioni proponendo esperienze, in modo da favorire apprendimenti.

 

La Funzione genitoriale

E’ chiaro che quando accettiamo di diventare genitori ci assumiamo un compito ed una responsabilità. Il compito è quello di aiutare i figli a crescere in modo che diventino individui autonomi e responsabili. La responsabilità è quella di impegnarci a fondo perché questo compito venga assolto nel modo migliore.

Educare (dal latino educere che significa tirare fuori, estrarre) significa stimolare i figli a sviluppare i propri talenti e accettare i propri limiti, perché ognuno di noi ha delle capacità che possono essere alimentate e dei limiti che se non si possono superare è bene imparare ad accettare. Sviluppare le proprie capacità o il proprio potenziale è funzionale a sviluppare un’idea di sé positiva  che diventa la premessa per una vita piena e soddisfacente. Accettare i propri limiti è funzionale a vivere più serenamente e a ridurre i conflitti interiori che sono per lo più originati dal percepire sé stessi come persone incompiute, in cui si percepisce il divario tra ciò che siamo (Io reale) e di ciò che vorremmo essere (Io ideale). Il compito che meglio sintetizza la funzione genitoriale è il prendersi cura. Il genitore si prende cura. L’allevamento dei cuccioli, umani e non, passa attraverso il prendersi cura di loro. Ma all’interno di questa funzione c’è un compito che più di altri sembra possa rappresentare il ruolo genitoriale, in particolare quello materno, cioè l’atto del nutrire. Se l’atto procreativo è quello che dà la vita, l’atto nutritivo è quello che la mantiene e permette la crescita. Questa considerazione ovvia al punto da essere banale, crediamo invece riassuma in sé l’essenza dell’essere genitore. Essere genitore significa quindi prendersi cura dei figli nutrendoli. Non è solamente il nutrimento fisico (cibo) quello che esaurisce ovviamente il compito, ma attraverso la relazione noi nutriamo di informazioni, significati, valori, affetti, regole, strategie etc. che vanno ad alimentare la struttura psichica dei nostri figli.

C’è una stretta analogia tra la dimensione fisica e quella psichica come ci ricorda la psicosomatica. Come le vitamine, gli aminoacidi, i grassi che sono parte del cibo che diamo ai nostri figli vanno una volta assimilati a formare la loro struttura fisica, così  tutto quello che passa attraverso la relazione con loro va, una volta assimilato, a dare corpo alla struttura psichica. Sia in un caso che nell’altro ciò che noi diamo va a formare identità sia fisica che psichica.  Questo è l’aiuto che diamo, questo è il compito di ogni genitore. Offrire nutrimento affinchè i nostri figli acquistino identità, la loro identità.

 

Gli Stili genitoriali

La funzione genitoriale, che abbiamo definito come il prendersi cura attraverso il nutrimento, si concretizza mediante due modalità, che possiamo chiamare stili comunicativi o stili relazionali: uno stile affettivo e uno stile normativo.

Lo stile affettivo veicola messaggi sull’essere, che vanno ad alimentare la fiducia in sé, e quindi la percezione di essere amabile, di essere importante, di avere un valore, di essere in pratica O.K. come persona. Lo stile normativo invece veicola messaggi sul fare, informando sul come si fa, su ciò che si deve o non si deve fare, su ciò che è giusto o su ciò che non è giusto. Quindi quando diamo consigli, suggerimenti, quando definiamo delle regole, poniamo dei limiti, passiamo dei valori, ci esprimiamo secondo questo stile. E’ evidente che i messaggi veicolati dai due diversi stili non sono solo messaggi verbali. In una relazione  si comunica in molti modi sia con le parole che con i gesti, anche il modo in cui ci si comporta diventa agli occhi di un figlio/a o di uno studente un potente veicolo di informazioni sia sul fare che sull’essere. Quello che ci interessa sottolineare è che la funzione genitoriale (e più in generale quella educativa) prevede queste due modalità di trasmissione di significati, quella normativa (codice paterno) e quella affettiva (codice materno). Ritornando alle riflessioni proposte da Pietropolli Charmet sul passaggio dalla famiglia etica a quella affettiva diventa evidente che nella famiglia etica prevaleva il codice paterno e quindi la funzione normativa, mentre nella famiglia attuale, tende a prevalere il codice materno e quindi la funzione affettiva. Quello che serve, visto che la storia non prevede ritorni al passato, è la consapevolezza in chi accetta di diventare genitore, che le due funzioni vanno comunque esercitate perché favoriscono nel processo di interiorizzazione l’assorbimento di contenuti che sono indispensabili per una sana crescita evolutiva dei figli. La funzione affettiva favorisce il consolidamento della stabilità emotiva legata alla percezione di sé, mentre quella normativa favorisce la capacità di muoversi e agire nel mondo. Ci sembra poco rilevante che la funzione normativa venga esercitata dal padre e quella affettiva dalla madre, come certe correnti di pensiero psicologico e pedagogico tuttora sostengono, in quanto la dinamicità evolutiva dei ruoli sociali, inevitabile conseguenza, come ci ricorda Zygmunt Bauman della cosiddetta “società liquida”, prevede più l’alternanza dei ruoli, l’interscambiabilità dei compiti, la flessibilità delle posizioni, la capacità di interagire con i cambiamenti, che non la definizione statica e definitiva delle identità, in questo caso genitoriali.

Tornando ai due stili genitoriali che riassumono sul piano relazionale la funzione genitoriale va specificato che il loro esercizio può essere positivo o negativo in rapporto alla loro capacità di favorire o inibire la crescita dei figli. Questo permette di identificare e descrivere sul piano fenomenologico quattro diversi stili genitoriali che andiamo a presentare. Come si potrà notare le quattro modalità relazionali non si esauriscono solo nell’esercizio della funzione genitoriale ma possono essere facilmente leggibili, proprio perché stili relazionali, in ogni interazione umana. 

 

Stile affettivo positivo 

E’ caratterizzato da comunicazioni che trasmettono messaggi affettivi positivi. Quindi le informazioni sono intrinsecamente caratterizzate dal piacere di trasmettere affetto. Ci esprimiamo secondo questo stile tutte le volte che siamo capaci di dire o trasmettere ai nostri figli quanto gli vogliamo bene, quanto siamo contenti della loro esistenza, della loro presenza nella nostra vita. Questa modalità rinforza in loro il senso di appartenenza, di fiducia, di essere importanti, di essere amabili. Questi messaggi sono un potente rinforzo al loro essere sani, in quanto ricevono il permesso di essere ciò che sono. Sul piano dei comportamenti lo stile genitoriale affettivo positivo si riconosce dall’essere vicini emotivamente, gentili, interessati, presenti, sostenenti.

In termini fenomenologici questo stile diventa visibile quando riusciamo a:

-          manifestare comprensione, solidarietà, aiuto

-          fare complimenti e apprezzamenti

-          ascoltare e a capire

-          incoraggiare l’espressione del parere altrui

-          rispondere alle richieste di aiuto

-          sostenere nel momento del bisogno

-          stimolare il fare

-          consolare di fronte al fallimento

-          dare spazio alla ricerca di una via d’uscita

-          favorire le novità incoraggiando l’esplorazione di nuove strade

-          essere comprensivi di fronte agli errori 

 

Stile affettivo negativo

E’ caratterizzato da una comunicazione che apparentemente è di tipo amorevole in realtà è svalutante e stimola la dipendenza. I messaggi sono diretti a rinforzare nel figlio un senso di debolezza, di inadeguatezza, di inferiorità. Per fare qualche esempio, espressioni del tipo “ Tesoro non ce la puoi fare…” “non preoccuparti ci penso io…”  “ah se non ci fosse la tua mamma/papà…” sono tutte espressioni che comunicano calore e quindi affetto ma non sono propositive sul piano evolutivo in quanto portano in sé una svalutazione, non un incoraggiamento. Sul piano comportamentale questo stile genitoriale si riconosce in chi è invadente, soffocante, manipolativo, iperprotettivo, seduttivo, opprimente.

In termini fenomenologici questo stile è visibile quando tendiamo a:

-          iperproteggere e sovrastare

-          correre prontamente in aiuto

-          difendere prontamente il figlio/a impedendogli di difendersi

-          fare le cose al posto del figlio/a impedendogli di farle

-          sacrificarsi più del dovuto

-          essere eccessivamente generosi

-          essere troppo indulgenti nei confronti dei figli o più in generale degli altri

-          essere troppo buoni

-          essere sempre pronti a giustificare o a scusare ignorando la divisione delle responsabilità

-          svalutare la possibilità che gli altri sappiano cavarsela da soli

 

Stile normativo positivo

E’ caratterizzato da messaggi che informano sul come si fa, su ciò che si deve o non si deve fare, su ciò che è giusto o non giusto. Sul piano comportamentale essere dei genitori normativi positivi significa: essere assertivi, saper porre dei limiti, responsabilizzare, chiedere il rispetto degli impegni, saper guidare, essere autorevoli, essere sul piano etico dei buoni esempi per i figli.

In termini fenomenologici questo stile è visibile quando riusciamo a:

-           esprimere opinioni senza svalutare l’altro

-           fornire direttive chiare e adeguate alla realtà

-           mostrarci decisi e determinati

-           definire degli accordi riuscendo a rispettarli e a farli rispettare

-           essere ordinati e precisi

-           avere un metodo per affrontare i problemi e riuscire a comunicarlo

-           avere un vivo senso di responsabilità

-           avere dei valori per i quali vivere

-           impegnarci attivamente per raggiungere gli scopi che abbiamo scelto

-           porre dei limiti ragionevoli sapendoli giustificare e rendendoli comprensibili agli altri

 

Stile normativo negativo

Anche in questo caso i messaggi sono centrati sul fare ma sono svalutanti e critici. Si porta l’attenzione su ciò che il figlio ha fatto di sbagliato, lo si ridicolizza, si va a pescare il pelo nell’uovo, lo si rimprovera per le sue incapacità. In altre parole lo si inibisce perché si tende a vedere più quello che fa di sbagliato che non quello che fa di giusto e soprattutto non gli si spiega come fare. Sul piano comportamentale alcuni comportamenti visibili possono essere: biasimare, ridicolizzare, scoraggiare, essere eccessivamente duri, mettere l’altro in difficoltà.

In termini fenomenologici questo stile è visibile quando tendiamo a:

-          imporre le nostre idee

-          svalutare le opinioni o le reazioni altrui

-          essere arroganti, critici, pungenti

-          notare subito quello che non va nell’altro ed esplicitarlo (ferendolo)

-          notare quello che manca più che quello che c’è

-          essere  rigidi sulle nostre posizioni

-          pensare di aver sempre ragione perché siamo i genitori

-          non far parlare l’altro impedendogli di esprimere il proprio pensiero

-          essere ipercritici

 

L’identificazione di questi stili che apparentemente può sembrare generica in realtà crediamo possa servire a definire una linea di condotta più che i suoi contenuti. E’ chiaro che ognuno di noi è figlio della propria cultura e quindi avrà il proprio sistema di valori, il proprio stile comunicativo prevalente e quindi i contenuti che passerà nella relazione educativa saranno influenzati da questi presupposti, ma il modo in cui lo farà potrà facilmente rientrare nei quattro stili identificati.

Altrettanto ovvio è che nessuno di noi avrà sempre uno stile comunicativo affettivo-normativo positivo o viceversa affettivo-normativo negativo. A seconda delle situazioni e anche della fase che ognuno di noi sta vivendo ci si esprimerà più in un verso che nell’altro. E’ evidente che se a prevalere nella relazione saranno gli stili comunicativi che abbiamo connotato e descritto come positivi, l’evoluzione dei figli sarà positiva e sana, in quanto si tenderà a soddisfare i bisogni di base (v. Maslow) contribuendo a costruire un senso di sicurezza e stabilità personale e inoltre si aiuteranno i figli a muoversi nel mondo trasmettendo loro degli strumenti sia etici che operativi.  Al contrario se nella relazione prevarranno gli stili che abbiamo descritto come negativi, è più probabile che la crescita dei figli esprimerà delle criticità e quindi dei problemi, in quanto mettendo in atto atteggiamenti iperprotettivi o modalità ipercritiche e persecutorie si rafforzerà il senso di insicurezza personale, la dipendenza dagli altri più che l’autonomia, con conseguente difficoltà a relazionarsi con il mondo in modo soddisfacente e appagante.

 

Pubblicato il 22.08.2012